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Home » Politica

Mulé a TPI: “Forza Italia non deve chiudersi in cerchi magici, è ora di aprirsi come nel 1994”

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Giorgio Mulé, 56 anni, vicepresidente della Camera. AGF

E lancia un allarme: "In Italia ospedali e aeroporti sono esposti ad attacchi a cyber attacchi"

Presidente Mulè, proprio non riusciamo a uscire dagli anni di piombo? Anche gli anniversari delle stragi di Bologna e dell’Italicus sono una ragione per l’ennesima contrapposizione sul ventennio mai passato.
“Il nostro problema, il problema dei problemi, è culturale. È quello di voler rifare i processi alla storia e di non accettare mai le verità storiche. Anche quando sono verità giudiziarie acclarate da sentenze definitive. È successo già con la Resistenza, dove non si fa pace con quello che è avvenuto. E penso sia agli orrori nazifascisti sia ai crimini commessi dai partigiani”.

La storia recente, però, non dovrebbe poter essere tirata per la giacchetta.
“E invece, ahimè, succede anche con episodi drammatici, come le stragi, che dovrebbero appartenere alla memoria comune, alla memoria condivisa di una comunità nazionale unita. Lei alludeva alle recenti polemiche sulla strage di Bologna, ma io penso anche a quella dell’Italicus, alla strage di Brescia. Episodi che dovrebbero essere letti come un dramma condiviso, nel senso di vederci tutti insieme: l’Italia civile e democratica che si stringe intorno alla verità. E invece il revisionismo fazioso e acritico determina poi polemiche infinite, come qualche giorno fa a Bologna”.

Ecco, fermiamoci su Bologna.
“Allora, quello di Bologna è uno dei casi in cui c’è poco da discutere, c’è ben poco da aggiungere nel dibattito pubblico: ci sono delle responsabilità definite e sono quelle che sono state sancite dalla magistratura. Su questo, nessun revisionismo è tollerabile. Però…”.

Però?
“Però poi non si può, per estensione, contaminare di responsabilità politiche il Governo. Né è giusto attribuire delle eredità a partiti come quello di Giorgia Meloni, che non hanno alcuna responsabilità. Non si dovrebbe mai poter fare un parallelismo tra soggetti che erano e sono distinti. Sono passati quarantaquattro anni dalla tragedia della stazione di Bologna. È un altro mondo, politicamente e culturalmente. Chiedere a Giorgia Meloni un’abiura, l’ennesima, rispetto a una tragedia a cui lei e i suoi sono totalmente estranei, è una forzatura che non giova alla democrazia. Il parallelo tra l’eversione di matrice neofascista e la destra del 2024 non regge”.

Proprio per questo, perché la destra italiana non riesce a prendere le distanze in maniera inequivoca?
“Che senso ha chiedere alla Meloni o al suo partito di dissociarsi da fatti anche di cinquant’anni fa che non hanno alcuna relazione con loro, come se fossero corresponsabili? Non lo sono e non devono in alcun modo giustificarsi”.

Non le sembra, invece, che FdI rivendichi, invece, un legame storico e politico con il neofascismo? Dalla fiamma in giù, diciamo.
“Effettivamente, ogni tanto capita che qualche nostalgico dia adito a polemiche. Però, vede, non ne usciamo più, in una contrapposizione come questa: non si possono chiedere le analisi del sangue a chi gioca democraticamente nel sistema democratico, come tutti gli altri partiti italiani. Non è giusto, come non lo sarebbe chiederle al Pd…”.

Al Pd?
“Certo. Io non mi sognerei mai di pensare che il Partito Democratico abbia un chiaro legame storico con i crimini del comunismo. Sarebbe ridicolo. Mi piace pensare che tutti noi italiani siamo, da tutti i fronti, ognuno per la sua parte, orgogliosamente antifascisti e orgogliosamente democratici. Nessuno può far discendere su Fratelli d’Italia una matrice legata alla destra non costituzionale. E nessuno dovrebbe mai creare connessioni tra la sinistra, e le forze di quella parte dello schieramento parlamentare, e i crimini orrendi del comunismo. È tempo di pace per questo Paese. Anzi, do a TPI una notizia”.

Dica.
“Saluto con entusiasmo e commozione il fatto che, alla ripresa dopo le ferie, la Camera approverà una legge che istituisce, su mia iniziativa, la Giornata nazionale dagli internati militari italiani. Sono 650mila soldati che nel 1943, dopo l’armistizio, rifiutarono di aderire alle SS e alla Repubblica Sociale italiana, e, per questo, vennero portati nei campi di concentramento. Oltre 50mila non tornarono mai più ai loro cari. Quelli che tornarono, invece, sono stati cancellati dalla storia e dalla memoria. Per ottant’anni abbiamo vissuto cancellando questa pagina, perché si pensava che quegli uomini fossero addirittura collaborazionisti o fossero legati al regime. Una falsa verità che è stata finalmente archiviata, tanto che questa legge è passata all’unanimità in Commissione Difesa e passerà all’unanimità in Aula, proprio perché si è raggiunta quella consapevolezza. Mi lasci oggi salutare con nostalgia la scomparsa di Michele Montegano, uno degli ultimi internati nei campi nazisti e presidente onorario dell’Anrp, l’associazione nazionale dei reduci della prigionia e dell’internamento. Ecco, anche in sua memoria, vorrei che lo stesso approccio unitario che abbiamo avuto per la Giornata degli internati militari, ci fosse per tutte quelle vicende recenti, meno recenti o passate, sulla quale l’Italia si è divisa”.

Veniamo alla sua Forza Italia. Le uscite recenti sulla stampa di Piersilvio Berlusconi, in qualche modo azionista di riferimento di FI, richiamano il suo partito a posizioni liberali, moderate, attente ai diritti civili della comunità Lgbtq+. Lo spostamento di Renzi riapre un’altra zona di conquista per Forza Italia e per i moderati?
“L’ennesimo spostamento di Renzi, vorrà dire”.

Sarà, però il senatore di Rignano costringe anche voi a riposizionarvi.
“Renzi vuole scindersi, spostarsi, ricollocarsi e reinventarsi ogni anno, ogni sei mesi, ogni settimana. Anzi, ogni due anni si scinde anche da sé stesso. Non è certo lui che determina l’apertura di uno spazio politico. Ma ha ragione lei, lo spazio dei moderati c’era e c’è. Però va occupato da un movimento, come quella di Forza Italia, che non deve e non può accontentarsi soltanto di fare come una calamita naturale, diciamo”.

Cioè?
“Forza Italia deve essere capace di attivare questo magnete, di essere calamita con idee, programmi, progetti e soprattutto provvedimenti che caratterizzano quella natura liberale e democratica. Parlo di diritti civili, giustizia, lavoro, imprese, competitività. Su questo, chiamo il mio movimento, a partire dai suoi vertici, a non chiudersi né a dare l’impressione di privilegiare presunti cerchietti magici. Al contrario occorre uno scatto di orgoglio e ritrovare la capacità e l’energia del Berlusconi del ’94. Erano anni in cui ci si circondava di personalità che arricchivano Forza Italia”.

Quali?
“Penso anche a figure esterne al movimento o addirittura politicamente distanti, secondo la loro storia. Personalità che Berlusconi riuscì ad avvicinare con un percorso di progettualità e che contaminarono molto bene Forza Italia. Penso a Lucio Colletti, a Saverio Vertone, penso a quella gente lì, per capirci”.

Capisco. Ma Pera ve l’hanno rubato, Tremonti lo stesso…
“Ma no! Non è che li hanno rubati, come dice lei. Sono intellettuali che hanno avuto poi percorsi storico-politici che li hanno portati altrove. A volte per dissidi personali, a volte per accidenti della storia. Altre volte, come nel caso di Tremonti, per vicende ancora da scrivere compiutamente, come in quel drammatico 2011, su cui io ho delle idee. Ecco, quello che deve fare oggi Forza Italia è andare a scuola, ritrovare i suoi professori. Che poi sono quelli della società civile, del mondo che produce. E noi abbiamo una grande fortuna”.

Quale?
“Non abbiamo, di fatto, una concorrenza politica. Il terzo polo, o forse sarebbe meglio dire il presunto terzo polo, che era prima Calenda, poi Calenda e Renzi, poi Calenda e un po’ di altro centrismo, alla prova dei fatti ha fallito. I risultati elettorali, in tutte le competizioni regionali, nazionali, europee ne hanno sancito l’irrilevanza. Per Forza Italia c’è una prateria”.

Una prateria vuota, però.
“Sì, che dobbiamo riempire con quel 47-50% di italiani che non votano più, che non trovano un’adeguata e credibile offerta politica. Noi ci misuriamo su quegli elettori, con la capacità di riattrarre quel mondo, con quella famosa calamita di cui parlavamo. Non certo con i resti di Renzi o di Calenda”.

Ma il vostro elettorato di riferimento non sarà offeso dal silenzio che ha circondato la vicenda politica e umana di Toti, abbandonato a sé stesso?
“Lei è ingiusto. Proprio su Toti direi che abbiamo dimostrato (e io per primo, nonostante le veementi politiche avute con Toti in passato!) di avere una schietta anima garantista, a prescindere dall’appartenenza. Le ricordo che Toti andò via da Forza Italia sbattendo la porta – e anche in malo modo – e con un’ingiusta posizione contro il presidente Berlusconi. Toti lo ricorda e sa perfettamente. Eppure, nessuno di noi si è mai sognato di non riconoscergli il diritto all’articolo sancito dall’articolo 27 della Costituzione (quello sulla presunzione d’innocenza, ndr). Né abbiamo mai esitato a definire ‘ricatto’ il legare la sua liberazione alle sue dimissioni. Con Toti abbiamo dimostrato di essere quello che diciamo, cioè garantisti non a corrente alternata. Le ricordo anche, a fortiori, che nella giunta della Liguria, Toti non volle nessuno di Forza Italia”.

Quindi avreste potuto stare a osservare in silenzio?
“Già. Invece noi non abbiamo voluto stare a mangiare i popcorn, come si usa dire…”.

Parliamo di politica internazionale. Lei è stato sottosegretario alla Difesa e ha molto operato in materia di intelligence. L’attentato di Teheran, i giochi di Parigi, le vicende degli ultimi mesi hanno messo in luce, ancor di più, l’importanza della sicurezza informatica, la cyber sicurezza. L’Italia in materia di cybersicurezza è attrezzata?
“Lo è, se guardiamo alla capacità di difesa dell’infrastruttura militare. E lo dimostriamo quotidianamente, perché il nostro sistema riesce a respingere il 99,9% degli attacchi. Ogni giorno migliaia di tentativi di infiltrazione per rubare o alterare dati, vengono rispediti al mittente. Ma lo stesso non si può dire dal punto di vista civile”.

Perché?
“Noi abbiamo un problema enorme, gigantesco, con le infrastrutture civili, con la cybersicurezza legata ai presidi strategici civili. Quelli che poi diventano oggetto di difesa, diventano armi e infrastrutture militari e paramilitari”.

Quali?
“Ospedali, acquedotti, reti, aeroporti, che molte volte sono in clamoroso difetto soprattutto nella Pubblica Amministrazione, nell’adeguarsi al dovere di difendersi. Oramai le guerre si combattono colpendo infrastrutture civili, di fatto provocando un danno che è a tutto tondo di tipo militare. Noi certamente non siamo ancora attrezzati come si deve per poter essere all’altezza di respingere un attacco massiccio”.

Cosa bisogna fare per arrivare alla sicurezza totale?
“Bisogna investire. Sicurezza e formazione, che è il grande gap. Non basta un programma di un software che blocca le mail, ci vuole la cultura di chi lavora nelle aziende e di chi forma il personale a difendersi dai cyber attacchi”.

Lei ha proposto la creazione di un’agenzia per l’alfabetizzazione digitale.
“Sì. Dobbiamo mettere tutti gli italiani in condizioni di capire l’ampiezza del fenomeno. Non tanto e non solo sul phishing, sul messaggino che ti arriva e che tenta di introdursi nel tuo sistema”.

Ma su cosa?
“Dobbiamo trasformare i nostri comportamenti quotidiani. Cioè capire che ovunque c’è un trasmettitore, che può essere anche un’app innocua, vengono trasmesse immagini che sono potenzialmente lo strumento che i nemici utilizzano per infiltrarsi. Avere una cultura digitale a tutto tondo è la prima cosa da fare e su cui bisogna investire”.

Con un decreto-legge nel 2021 è stata istituita l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (Acn), che sarà in breve un ente gigantesco per competenze e personale, centrale nella organizzazione della sicurezza. Poi ci sono aziende private di grande qualità – penso a CY4Gate e a DEAS Spa, ad esempio – che sono all’avanguardia sul tema della cybersicurezza, che hanno iniziato a lavorare con i Servizi e con le strutture della Difesa. Come si fa a comprendere qual è il livello di affidabilità dei privati in questo. Sono lo strumento giusto?
“La ringrazio per la domanda perché in questo io fui, da sottosegretario alla Difesa, precursore e fautore di un partenariato pubblico-privato che consentisse al privato di entrare, di fatto, all’interno delle strutture militari per garantirne la cybersicurezza. Il partenariato coi privati è essenziale. Lo Stato non dà mai una delega totale, in materia di sicurezza. Testa continuamente e verifica che questa delega a tempo di sicurezza al privato sia rispettata al 100%. La Difesa ha al suo interno tutti gli strumenti per verificare il livello di sicurezza dei privati e collaborare egregiamente con loro. Cito un ente su tutti, il Cor (Comando per le Operazioni in Rete) e, come diceva, l’Agenzia della Cybersicurezza Nazionale. Quest’agenzia sa bene come certificare le aziende che fanno cybersecurity. La collaborazione coi privati è irrinunciabile, come già avviene negli Stati Uniti e in altri Paesi che sono un riferimento per noi. Ma sempre all’interno di parametri che vengono verificati con un aggiornamento continuo della capacità di essere resilienti, anche a livello di cybersicurezza. È la sfida del futuro per difenderci da qualsiasi attacco. E serve un progetto condiviso”.

Il (suo) Governo Meloni sta facendo tutto quello che serve?
“Ci vogliono molti soldi. Così tanti che l’Italia da sola non può averli. Per cui, ancora una volta, occorre una consapevolezza a livello di Unione europea che consenta a tutti i Paesi di potersi difendere, a partire dai cittadini. Serve un grande progetto: chiamiamolo Piano Marshall digitale. Ma è urgente”.

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