Dall’abolizione del Rdc alla rinegoziazione del Pnrr: ecco che cosa ha in mente Giorgia Meloni
Vuole fare la guerra ai poveri abolendo il reddito di cittadinanza.Punta a riscrivere il Pnrr ma come Draghi giura fedeltà agli Usa su politica estera ed economica. Spinge per il ritorno ai fossili e al nucleare, minaccia i diritti e si prepara a stravolgere la Costituzione. Ecco dove la premier in pectore vuole portare l’Italia
Giorgia Meloni tormenta la parte inferiore del microfono senza fili. Le sue mani non riescono a stare ferme. Prende e posa il telefono sul leggio, tocca la penna lì affianco, poi torna al microfono. Gesticola, ma pacatamente. Non come durante i comizi elettorali. Anche la voce è controllata. Il suo primo discorso dopo il risultato elettorale, la notte tra il 25 e il 26 settembre, è il compimento di un percorso iniziato pochi giorni prima, quando la leader di Fratelli d’Italia ha iniziato a cambiare tono, preparandosi a interpretare il nuovo ruolo: quello che con tutta probabilità le affiderà nelle prossime settimane il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Prima presidente del Consiglio donna d’Italia, a capo di un partito che gode del maggior consenso nel Paese, e con i due alleati fermi entrambi intorno all’8 per cento, un risultato che impallidisce di fronte al suo 26 per cento. Meloni è conscia dell’importanza e della delicatezza del compito che questo esito elettorale le affida, e infatti usa la parola “responsabilità” più volte nel suo discorso. In una notte, non è più la leader che incalza e solletica gli avversari politici, è la donna che – dopo aver conquistato la fiducia degli italiani – deve ottenere quella delle cancellerie europee e internazionali. Rassicurare è la parola d’ordine.
Nelle ore in cui si lavora per selezionare i candidati alla presidenza delle due Camere e la squadra di governo parlare delle prime mosse dell’esecutivo con gli esponenti di FdI è difficile, se non impossibile. Non si sbottona Lucio Malan, ex forzista ora in Fratelli d’Italia, rieletto e dato in lizza come possibile nuovo ministro per i Rapporti col Parlamento, che al telefono commenta: «Posso dirle solo “So far so good”. Fin qui tutto bene». Così come altri esponenti e fedelissimi di Meloni, che si chiudono in un silenzio stampa. «Non è giornata». «Silenzio stampa». «Magari nei prossimi giorni», sono le loro risposte. C’è tanto lavoro da fare, soprattutto per gli esponenti più vicini a Meloni. E probabilmente c’è il timore di qualche passo falso, che potrebbe costare una nomina, magari un ministero. Ma questo non impedisce di capire quali saranno le prime mosse dell’esecutivo a guida Meloni: per farlo basta mettere in fila alcuni fatti, dichiarazioni e promesse elettorali.
Il primo passo per il nuovo governo, dopo l’elezione dei presidenti delle due Camere, la messa a punto della squadra e il voto di fiducia in Parlamento, sarà la legge di bilancio, la cui presentazione ufficiale dovrebbe avvenire il 20 ottobre. Da FdI si è richiesta tutta la collaborazione possibile al governo uscente, ma non si andrà oltre il limite dei rispettivi compiti: dunque nessuna finanziaria scritta insieme da Draghi e da Meloni, come confermano fonti di palazzo Chigi a TPI. Non c’è nessuna bozza scritta a quattro mani, dicono. Il governo Draghi ha presentato la Nadef (Nota di aggiornamento al Def, Documento di economia e finanza) mercoledì scorso, incassando il via libera del Consiglio dei ministri. Inoltre gli uffici tecnici continueranno a lavorare – come stanno facendo da mesi – per predisporre tutto il materiale, ma spetterà comunque al nuovo esecutivo assumere tutte le scelte di politica economica. Sembra invece ormai certa una proroga dei tempi per la presentazione della legge, su cui è in corso una interlocuzione tra gli uffici tecnici di Roma e di Bruxelles, con altri 45 giorni di lavoro che potrebbero essere messi a disposizione.
La prima legge di bilancio del governo Meloni, quindi, sarà preparata celermente, in sostanziale continuità col governo Draghi, per mancanza di tempo e risorse. Tra i primi provvedimenti annunciati da FdI, dovrebbe esserci inoltre un decreto contro il caro energia.
La visione economica di Meloni – la cosiddetta Melonomics – è basata su un mix di protezionismo e liberismo. Tra i provvedimenti principali rivendicati in campagna elettorale c’è l’abolizione del reddito di cittadinanza, che secondo l’accordo quadro di centrodestra dovrebbe essere sostituito «con misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Altro punto importante in campo economico è la revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per ampliare la quota destinata all’energia, ma per farlo Meloni avrà bisogno di tempo e del dialogo con Bruxelles. Per quanto riguarda la fiscalità, la leader di FdI evita di lanciarsi nelle costose promesse avanzate dai suoi alleati, ma è d’accordo sulla riduzione della pressione fiscale su imprese e famiglie e sul taglio strutturale del cuneo fiscale e contributivo. Quanto alla flat tax, sostiene che andrebbe applicata all’inizio sui redditi incrementali, cioè sull’aumento del reddito rispetto all’anno precedente.
Meloni rivendica con forza la sua scelta atlantista per la politica estera, che la colloca saldamente all’interno dell’Alleanza Atlantica, come del resto è accaduto per il governo Draghi. Ha ribadito pubblicamente che continuerà a sostenere la lotta del popolo ucraino, ed è pronta a farlo con le sanzioni a Mosca e tramite l’invio di armi a Kiev. Questa è una posizione che tranquillizza in parte le cancellerie europee, che sarebbero state più in difficoltà nel caso di un governo di centrodestra a guida Salvini o Berlusconi, dato che entrambi hanno espresso delle riserve in più sulla questione russo-ucraina.
Per quanto riguarda i rapporti con l’Ue, se nell’accordo quadro di programma raggiunto con gli alleati si sottolinea la «piena adesione al processo di integrazione europea, con la prospettiva di un’Unione europea più politica e meno burocratica», nella pratica i rapporti non sono così lineari. A dimostrarlo anche le dichiarazioni di Francesco Lollobrigida, capogruppo uscente di FdI alla Camera, che ha parlato apertamente della volontà di “rivisitazione” dell’articolo della Costituzione che stabilisce la sovranità del diritto comunitario di fronte a quello nazionale. Nel nuovo Parlamento, alla destra mancheranno 23 senatori e 30 deputati per cambiare la Carta, ma non è detto che non si riesca a trovare un accordo che vada in questa direzione, insieme alla svolta presidenzialista da tempo invocata dalla coalizione, magari dialogando con Renzi e Calenda.
C’è anche un’alleanza di Meloni che complica i suoi rapporti con Bruxelles: si tratta dell’ungherese Viktor Orbán, che il blocco occidentale dell’Ue ha isolato e condannato a causa della svolta illiberale in corso nel Paese. Insieme alla Lega di Matteo Salvini, anche FdI non ha votato il documento del Parlamento europeo che condannava Orbán per gli «sforzi deliberati e sistematici del governo ungherese» contro i valori dell’Ue. Forza Italia, invece, ha votato a favore, in linea con il gruppo dei popolari europei.
«È ancora presto per dire cosa aspettarci dal governo Meloni sul clima, ma i presupposti sono quelli di un programma abbastanza lontano dai temi climatici e da un livello alto di ambizione». A dirlo a TPI è Davide Panzeri, Responsabile Programma Europa di Ecco, il think tank italiano per il clima. «Le nomine ministeriali ci daranno un’indicazione. Si è parlato ad esempio di un possibile ruolo dell’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi. Un suo incarico di rilievo, data la necessità di decarbonizzare e abbandonare progressivamente il sistema gas, sarebbe infatti un segnale negativo dal punto di vista climatico». Ma le nomine non sono l’unico fronte aperto. «All’interno della stessa coalizione di centrodestra ci sono delle differenze», spiega l’esperto. «La Lega, ad esempio, ha un programma chiaro, climaticamente abbastanza regressivo, quello di FdI è meno consolidato e orientato. E questo dà potenzialmente degli spazi d’entrata su determinati temi all’interno dell’ambito clima».
Un segnale importante da questo punto di vista è stata la sottoscrizione, pochi giorni prima del voto, da parte di FdI – unico partito italiano e tra i pochi a livello europeo – di una dichiarazione internazionale del centrodestra sull’emergenza climatica, promossa dal Conservative Environment Network che, tra i vari impegni, contiene anche quello a raggiungere la neutralità climatica entro la metà del secolo, quindi lo stesso obiettivo del “Green Deal” europeo.
«Tra i temi climatici “vicini” a FdI, su cui possiamo immaginarci che ci sarà un dialogo c’è l’indipendenza e l’autonomia energetica, che è legato allo sviluppo delle rinnovabili: questa è la via maestra per la riduzione dei costi dell’energia e l’uscita dall’attuale crisi energetica per le imprese e per le famiglie», dice Panzeri. «Sbloccare i progetti delle rinnovabili sarà uno dei banchi di prova per il nuovo governo». A confermare un possibile dialogo anche il voto favorevole di FdI lo scorso 14 settembre al Parlamento europeo, in favore dell’aumento del target delle rinnovabili e l’astensione sull’efficienza energetica, rispetto al resto dei membri del gruppo Ecr, che ha votato contro su entrambe le questioni. Infine c’è il tema nucleare, presente nel programma di centrodestra. «Per le lunghe tempistiche necessarie, chiaramente non può essere una risposta alla crisi attuale», commenta Panzeri. «Staremo a vedere come il nuovo governo porrà la questione».
I diritti delle donne e delle minoranze sono stati uno dei temi più caldi in campagna elettorale. Nel caso dell’aborto, Giorgia Meloni ha dichiarato di non voler modificare la legge 194, ma di volerla applicare nella sua interezza. «Credo che sia sincera, e che questa sia una posizione abbastanza avveduta da parte sua», dice a TPI Giorgia Serughetti, ricercatrice in Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca. «È una posizione che si colloca a metà tra due necessità, quella di parlare col suo mondo, che ha stretti legami con i movimenti anti-abortisti, e quella di non osteggiare una legge sostenuta da una larghissima maggioranza della popolazione. In questo senso, intervenire per modificarla può essere impopolare». Ma ciò non vuol dire che il diritto all’aborto sarà garantito. «Credo che quando parli di applicazione integrale della legge, Meloni si riferisca alla concessione di spazi ai centri di aiuto alla vita, cosa che è stata già attuata in Comuni o Regioni governate dalla destra, con l’idea di intervenire sulla scelta delle donne in modo indiretto: non vietando, ma rendendo più faticosa la decisione di abortire, il tutto con la retorica di garantire “più diritti” alle donne. Questo sarebbe un modo molto efficace per boicottare la 194 e per peggiorare ulteriormente il clima che circonda la scelta delle donne di interrompere la gravidanza».
Un altro tema su cui Meloni ha adottato una posizione simile è quello delle unioni civili. La leader di FdI ha detto più volte che non intende cancellare questo istituto, ma ha ribadito anche la propria contrarietà alle adozioni da parte di coppie omosessuali. «La legge sulle unioni civili è stata un compromesso su cui persino una parte del mondo più conservatore si è trovato d’accordo, e su cui Meloni non intende aprire un fronte di battaglia, perché tutela solo le unioni tra adulti, senza riconoscere alcun diritto ai figli di persone dello stesso sesso», spiega Serughetti. «Penso che le battaglie identitarie più forti si faranno sui bambini. Ad esempio, sul tema delle stepchild adoption il nuovo governo potrebbe rendere più difficile la vita alle coppie omogenitoriali. Al momento solo alcune anagrafi comunali – non tutte – permettono la registrazione di entrambi i genitori per i figli nati da coppie omosessuali con la procreazione medicalmente assistita (Pma) o con la gestazione per altri (Gpa) fatta all’estero. L’esecutivo potrebbe quindi prendere qualche provvedimento per rendere più difficile questo iter, cosa che sarebbe molto in linea con lo spirito meloniano. Non è un caso che FdI abbia aperto un fronte sulla Gpa, che ha proposto di rendere “reato universale” da perseguire anche all’estero. Il punto è non accettare l’esistenza di famiglie con due mamme o due papà, da cui la polemica su Peppa Pig».
«Questo mi porta al terzo fronte, il campo della scuola», prosegue la ricercatrice. «Non mi sorprenderebbe che ci fossero iniziative per affermare una linea identitaria, molto incentrata sulla famiglia, i valori tradizionali. Magari cancellando qualsiasi percorso oggi esistente che parli di educazione di genere, già oggi faticosamente attuati dagli istituti scolastici. Basta poco per disattivare quel che è stato messo in campo negli ultimi anni, restringendo le maglie di ciò che è possibile fare in questa direzione e tornando indietro, ad esempio, sui programmi scolastici».
C’è poi il capitolo che riguarda l’immigrazione. «Meloni dice di voler proteggere le donne, ma si riferisce solo ad alcune», fa notare Serughetti. «Non include ad esempio le donne che rischiano la vita in mare per arrivare qui, e che vorrebbe trattenere all’interno di centri di smistamento e hotspot sull’altra sponda del Mediterraneo, il che apre un’altra questione: quella del rispetto dei diritti umani e la tutela di soggetti vulnerabili».
«Penso che la prima cosa di cui faremo esperienza non sarà una sequenza di provvedimenti che modifichino in modo sostanziale la legislazione vigente, quanto un clima che immagino diventare progressivamente più ostile, di maggiore chiusura verso le minoranze e verso alcuni messaggi che provengono dal mondo femminista, e anche nei confronti degli stranieri, cosa che avrà ricadute molto pesanti sui singoli».
Un altro esempio è quello del fine vita, su cui il Parlamento non ha ancora emanato una legge che prenda atto delle sentenze della Corte costituzionale. «Ci troveremo in una situazione di maggiore difficoltà per tutto quel che non è stato messo in sicurezza dalle leggi nell’ultima legislatura e nelle precedenti, anche dove magari si poteva arrivare ad avere i numeri per farlo. Penso ad esempio al ddl Zan», dice. «Si tratterà di una lunga traversata nel deserto: il Parlamento uscito da queste elezioni ha delle posizioni molto chiare su questo. Leggi di iniziativa parlamentare sul fine vita, o sulla legalizzazione della cannabis, non troveranno mai i numeri per essere approvate. Riguardandosi indietro viene da dire: forse valeva la pena mettere in sicurezza i diritti quando era possibile. Ora abbiamo davanti a noi anni difficili, in cui non si potrà fare altrimenti».