Migranti, Fratoianni (LeU) a TPI: “Governo ancora troppo ambiguo sulla Libia”
Intervista al deputato di Liberi e Uguali
Fra pochi giorni ci sarà il rinnovo automatico degli accordi dell’Italia con la Libia che vennero sottoscritti il 2 febbraio del 2017 in nome di una collaborazione per la gestione dei flussi migratori. TPI ne ha parlato con Nicola Fratoianni, deputato di Liberi e Uguali.
Gli accordi con la cosiddetta Guardia Costiera libica rientrano nel quadro di una politica scellerata sulla grande questione delle migrazioni. Una scelta che ha puntato sulla cosiddetta riduzione dei flussi, delle partenze e degli arrivi ma che ha in realtà – come hanno dimostrato numerose inchieste internazionali – hanno consegnato la vita di centinaia di migliaia di persone nelle mani di milizie di un Paese non sicuro e di veri e propri e propri trafficanti.
Quella scelta inaugurata dall’allora ministro Minniti è una scelta che abbiamo sempre contrastato e che va messa oggi radicalmente in discussione. Non c’è dubbio che anche il nuovo governo, che pure ha segnato rispetto al governo precedente qualche primo segnale di discontinuità, su questo terreno sia più che prudente e a tratti balbettante.
Non è difficile immaginarne le ragioni, a partire dal peso del PD su questo governo e dalle responsabilità che il PD ha avuto nella definizione di quegli accordi. Ma è del tutto evidente che sarà necessario costruire in Parlamento, in vista del rinnovo delle missioni internazionali, che arriverà probabilmente intorno all’inizio del prossimo anno alla Camera, una battaglia molto determinata perché quegli accordi vengano stracciati e rivisti in modo radicale.
Non si può mantenere un accordo di cooperazione con un Paese come la Libia che può essere definito in qualsiasi modo tranne che Paese sicuro, visto che non rispetta gli accordi internazionali e i diritti, con la Guardia Costiera libica che, come si è visto, svolge spesso il doppio ruolo: di notte la divisa del carceriere e di giorno quella da Guardia Costiera che cattura i migranti che sono scappati per riportarli negli stessi centri di detenzione che gestisce.
L’accordo di Malta evidentemente mantiene molti punti assai discutibili. Innanzitutto è un accordo che non mette in discussione il ruolo della Libia e il fatto che alla Libia sia riconosciuta un’area SAR così vasta. È chiaro che un Paese in quelle condizioni e con quelle caratteristiche non può essere responsabile di un’area SAR.
Potremmo anche discutere del tema delle ricollocazioni, cioè del fondamento dell’accordo maltese, ma, nonostante questo, quell’accordo puntava a introdurre un primo elemento di discontinuità. È evidente che sul terreno della gestione dei flussi migratori anche questo governo mantiene nell’impianto di fondo ancora un’ambiguità molto pesante.
Si tratta, e questa è la vera sfida, di metterlo in discussione. E lo si fa garantendo alcuni pilastri fondamentali – come quello del porto sicuro più vicino, e su questo il nostro Paese ha cominciato a muoversi – e quello della necessità di tornare a investire su missioni di carattere internazionale orientate alla ricerca e al soccorso come fu nel caso della missione Mare Nostrum, prima smontata e poi ripristinate più sulla difesa dei confini. E poi naturalmente sulla ridiscussione complessiva di un quadro normativo che ha messo in discussione la legalità degli interventi nel Mediterraneo. L’accordo di Malta è un primo segnale nella giusta direzione ma siamo di fronte a un segnale insufficiente.
L’inchiesta straordinaria di Nello Scavo e le nuove rivelazioni che arrivano giorno dopo giorno dimostrano quanto quegli accordi con la Libia siano stati fino in fondo una scelta sbagliata e inaccettabile. La verità è che rispetto a quelle scelte esiste una corrente di pensiero che rivendica continuità con quella linea, non soltanto perché ha avuto con quelle scelte una compromissione ma anche perché c’è chi continua a pensare che di fronte alle migrazioni siano possibili solo risposte di carattere emergenziale.
Come abbiamo visto in questi anni tutto questo è infondato, sbagliato, inefficace e ingiusto, dunque bisogne mettere in discussione complessivamente questa scelta e forse anche rivedere la nostra politica estera e le relazioni non solo con la Libia ma con tutta l’area sud del Mediterraneo, che è il centro intorno a cui si muove il grosso delle contraddizioni sulle migrazioni.
Quella che sta avvenendo in Siria con l’offensiva vergognosa delle truppe del dittatore Erdogan contro i curdi siriani, contro coloro che in prima fila hanno combattuto Daesh e hanno riconquistato Raqqa, la dice lunga su come la politica internazionale si sia disimpegnata sulla situazione curda ritenendola marginale, al massimo uno strumento utile in particolari situazioni. E dimostra come rispetto alla vicenda delle migrazioni il rapporto che l’Europa ha costruito con alcuni Paesi come la Turchia sia un rapporto di dipendenza di carattere strumentale.
Erdogan ogni giorno minaccia di “liberare” centinaia di migliaia di profughi: quell’accordo andrebbe stracciato come sarebbe necessario alzare di molto il livello di pressione nei confronti della Turchia. Alcuni passi sono stati fatti, non soltanto con le dichiarazioni, ma bisogna stringere ulteriormente i bulloni e sarebbe necessario che l’Italia facesse pesare di più il proprio ruolo nella Nato e nell’Onu.
Bisogna che ci si attivi con tutti gli strumenti disponibili per fermare l’ennesimo massacro di un popolo orgoglioso e fiero che paga la colpa di avere mantenuto la propria indipendenza e di avere mantenuto uno straordinario esempio democratico in territori in cui la democrazia non è all’ordine del giorno.
Non so se è possibile dirsi fiduciosi rispetto alla possibilità di rivedere il rapporto di Dublino con questo governo europeo. So, però, che dalla radicale modifica dell’accordo di Dublino bisogna passare: perfino la vicenda delle ricollocazioni, che non può essere affrontata con accordi tra singoli Stati trattando le persone come pacchi e come numeri ma è necessario un meccanismo di carattere cooperativo è necessario. Bisogna evitare la questione del Paese di primo approdo che costringe quel Paese a fare tutti i passaggi di identificazione e di asilo.
Matteo Renzi e Italia Viva si stanno distinguendo in modo molto netto com’era prevedibile, altrimenti non avrebbe avuto senso dare vita a un nuovo soggetto politico. L’hanno fatto, però, su punti e contenuti che segnavano la collocazione centrista che guarda sostanzialmente a destra di quella formazione. Non è una novità o una sorpresa, tutti lo sapevamo.
Il punto è che per provare un elemento di discontinuità serve non solo un cambio di passo ma anche che il PD guadagni un elemento di discontinuità: negli ultimi anni le scelte politiche di quel partito hanno in buona parte contribuito a determinare il quadro presente, di grande fragilità. Questo goverano fatica a trovare un’anima e una sua identità politica, eppure questa strada va percorsa. Più che il coraggio di distinguersi serve il coraggio di tutti di trovare un’idea di Paese sostanzialmente diverso.
Sono convinto che di fronte all’arroganza di questa destra a trazione salviniana sia necessario porsi il problema della costruzione di un’alternativa. Penso anche che questa alternativa debba nascere da un nuovo schema politico: non sono tra coloro che pensano che si possa immaginare il ritorno a un bipolarismo d’anta e per questo ho guardato con favore la nascita di questo governo e da tempo ho indicato la strada di una relazione con il M5S come strada necessaria per trovare un elemento di innovazione.
I primi segnali che arrivano dal governo dicono che c’è ancora molta strada da fare, ma dicono anche che si può costruire se tutti sono in grado di mettere percorsi di forte innovazione. Sinistra compresa. Uscendo dall’insopportabile frammentazione ma anche costruendo un manifesto convergente che contribuisca a battere le destre. Per battere le destre dobbiamo pensare a come sconfiggere l’egemonia che le destre hanno instillato nella società italiana. Questo è un lavoro molto lungo e credo che la sinistra possa svolgere un lavoro molto importante.