Renzi fa causa a TPI, parla il grande Forattini: “Io per la mia libertà mi farei impiccare”
Negli ultimi giorni si è riaperto il dibattito sulla libertà di stampa in Italia, dopo che Matteo Renzi, senatore e leader di Italia Viva, ha annunciato azione civile contro La Stampa e TPI per due articoli nei quali si riferiva del suo recente viaggio a Dubai per motivi sconosciuti [Leggi anche: Querela Viva (di Giulio Gambino)]. Ne abbiamo parlato con Giorgio Forattini, maestro di vignette e di satira, in occasione del suo 90esimo compleanno.
“Io per la mia libertà mi farei impiccare”.
Anche oggi la libertà è a rischio?
“Scherzi? Vedo, a partire dalle querele di Renzi, una quantità infinita di persone, oggi, che usano la causa civile per infliggere bavagli”.
E cosa ne pensi?
“Sono tutti imitatori del D’Alema, che fece causa a me. Ma quando un politico invoca la censura per mettere un bavaglio alla stampa vuol dire che ha già perso”.
Parliamo di Forattini prima di Forattini.
(Sorriso ineffabile e forattiniano). “Sono diventato disegnatore satirico per puro caso. Grazie a Panorama. E a… una donna”.
Detta così, tutto diventa subito interessante.
“Avevo già 43 anni, lavoravo, come ti spiegherò tra breve, a Paese Sera”.
Come grafico. Ma disegnavi?
“Pubblicavo, ogni tanto, strisce di costume che apparivano, con qualche fatica, nelle pagine interne”.
E cosa succede?
“Mi fidanzo con una bellissima ragazza”.
Ah, bene.
“Lene, una danese affascinante che aveva occhi verdi, sangue blu e un nome da fotoromanzo: Lene De Fine Licht”.
È stata lei il contatto con Panorama?
(Sospirone). “È più complicato. Lene viveva a Trastevere, con sua sorella. E io ho avuto, come talvolta capita nella vita, una una storia anche con la sorella”.
Ah. A me non è mai capitato.
“Lascia perdere e seguimi: questa sorella era amica della moglie danese di Luigi Melega, una delle principali firme del prestigioso Panorama di Lamberto Sechi”.
E cosa accadde?
“Iniziammo a frequentarci con i Melega, finché un giorno lui, vedendomi disegnare non mi disse: ‘Tu devi assolutamente disegnare delle vignette di satira politica per noi!'”.
E cosa gli hai risposto?
“’Ma io non ne ho mai fatta una!’, obiettai”.
E Melega?
“Fu incrollabile: ‘E che vuol dire? Studia, leggiti la satira dei giornali francesi, esercitati, prova’”.
Aveva avuto premonizione del tuo talento. Sembra incredibile.
“È vero. Ma per me suonò molto persuasivo”.
Al punto da metterti davvero a studiare?
“Sì. Iniziai a comprare, nelle edicole di via Veneto, dove arrivavano, Le Monde, Liberation, Le Canard Enchainè: scoprii un mondo!”.
E disegnasti la tua prima vignetta?
“Sì. Credo che fosse un Andreotti a cui qualcuno appendeva un pesce d’aprile sulla schiena”.
Fatalità. Lo stesso Andreotti che raccontava: “I miei figli mi chiedevano: ‘Perché non quereli Forattini?'”.
“E lui rispondeva: ‘Che posso dire di Forattini? Forattini mi ha inventato!'”.
Geniale, e vero. Il più bel complimento possibile.
“Senza dubbio: anche perché, a parte Andreotti, Spadolini e Berlinguer, tutti gli altri mi hanno querelato”.
Chi?
“Craxi, quattro volte. De Mita, per un miliardo, Orlando addirittura annuncià quattro miliardi, poi per fortuna non diede seguito. D’Alema, per la famosa vignetta del bianchetto. E fui condannato per i rubli…”.
Orlando, però, lo avevi rappresentato con la Coppola da mafioso!
“La satira è iperbole, sarcasmo feroce, libertà. Sai che mi sono pentito solo una volta di una vignetta che ho fatto? Sul suicidio di Gardini”.
Torniamo per un attimo al 1974. La vignetta su Panorama ha successo?
“Straordinario. Me ne chiedono una a settimana”.
Ottimo, dunque.
“Però si arrabbia Giorgio Cingoli, direttore di Paese Sera, che mi dice: “’Lavori qui e per noi queste vignette non le fai?’”.
Giusto.
“Così inizio a disegnare anche per Paese Sera, e nasce la serie dei fiaschi”.
Ogni insuccesso politico disegnavi Fanfani, che era un pittore amatoriale, mentre dipingeva i suoi fiaschi politici.
“Finché non arriva la sconfitta del divorzio e ribalto tutto: Fanfani espulso come un tappo dalla bottiglia del No”.
Geniale. E che accade?
“Prima pagina, apoteosi. La vignetta fa il giro del mondo, viene riprodotta ovunque, diventa icona, e io da quel giorno per tutti divento ‘Forattini'”.
Giorgio Forattini compie novant’anni. Avevo già avuto la fortuna di intervistare il Maestro della satira italiana nella sua bellissima casa di Milano (una delle tre, oltre a quella di Roma e Parigi). Ed era stato come entrare nella pinacoteca di un museo. Giorgio Forattini quel giorno spiegava: “Ho comprato quadri dei pittori più svariati, uniti da un particolare: sono quasi tutti ritratti”. Era tre anni fa. Giorgio è sempre in forma splendida. Oggi ha una chioma ormai candida, e dice: “Ho combattuto tanto per difendere la mia libertà, ora devo farlo per conservare la mia memoria”.
Ogni tanto, quando meno te l’aspetti, Giorgio ti fulmina con una freddura o una battuta in simil-romanesco: “Ahó, m’hai già fatto due foto, devi pagà!”. Oppure, per contrario, con l’understatement: “Eri un Don Giovanni?”, chiedo. Sorriso: “A me non risulta”. Il filo conduttore nella sua biografia sono il viaggio del Talento a cavallo fra tre repubbliche e un frammento importante di storia italiana.
Oggi un video (qui sotto) celebra la sua fantastica avventura, la sua lotta contro mille censure, più che mai attuale. Come la sua storia, perfetta per un romanzo. Quello di un uomo che dice: “Io per la mia libertà mi farei impiccare”.
Tua madre era nobile.
“Sì, si chiamava Matilde Merlino: piemontese di origina istriana. Sua madre era austriaca, suo padre Federico era stato ministro delle Finanze e poi presidente della Corte dei Conti”.
E tuo padre?
“Era emiliano, aveva partecipato alla marcia su Roma: industriale”.
Tu sei romano.
“Senza dubbio, in tutto e per tutto figlio di quella città eterna e scanzonata. Ho trascorso molti anni in collegio, al San Giuseppe de Merode, Piazza di Spagna. Ma ho passato l’infanzia a Milano e gli anni più belli della mia giovinezza a Napoli, dove ho fatto tirocinio di ironia nella più grande accademia del mondo”.
Quando cominci a disegnare?
“Da bambino, prima di iniziare a scrivere. A scuola facevo le caricature dei professori che poi protestavano con i miei”.
E ti creavano problemi?
“Papà era un uomo straordinario ma con un carattere fortemente autoritario. Forse mi sono autocensurato”.
Perché?
“Ho iniziato a lavorare con lui, e dai venti ai quarant’anni non ho mai impugnato la matita”.
Che lavori hai fatto?
“Di tutto. A diciotto anni esco di casa. Mi iscrivo all’Accademia di teatro, dove i tra miei compagni c’erano Lina Wertmuller e molti altri che diventeranno celebri”.
Ad esempio?
“Sofia Scicolone, non ancora Loren”.
Hai raccontato a D’Orrico di aver avuto un flirt con lei.
(Sorriso). “Io lo ricordo. Lei, a quanto pare no. E sai cosa accade, molti anni dopo?”.
La re-incontri?
“Sì, invitati entrambi in una cena da Armani. Io, contento, le dico: ‘Ricordi? Eravamo all’Accademia insieme!'”.
E Sofia?
“Mi fulmina con uno sguardo gelido: ‘Impossibile, io sono molto più giovane di lei'”.
Ah ah ah. Fai studi irregolari?
“Mio fratello si laurea subito e diventa ambasciatore. Io frequento Architettura e poi Giurisprudenza. Per molti anni faccio il rappresentante di commercio”.
Nel settore petroli, con tuo padre.
“Aveva venti stazioni di servizio soprattutto al sud”.
E tu giravi. Migliaia di chilometri, in una Cinquecento ripagata con detrazioni dalla busta paga.
“Come ho fatto a sopravvivere non lo so. Ma fu un periodo felice”.
Il tuo romanzo di formazione?
“Ho potuto raccontare tutta l’Italia, poi, perché già la conoscevo, da prima”.
La Sicilia a forma di coccodrillo, e protestò l’Ars.
“Bellissima”.
La Sardegna a forma d’orecchio, dopo l’amputazione del sequestro Getty.
“Ricevetti minacce di morte, venne la Digos a casa, e io che amavo la Sardegna e ci sono andato in vacanza per 18 anni consecutivi”.
Tanti.
“Ne ho trascorsi metà a Li Capanni, con una camionetta dei carabinieri davanti all’albergo”.
La società di tuo padre era a Napoli e si chiamava – incorrendo in molte ironie partenopee – DIOm, con una emme minuscola.
(Risata). “Non era blasfemia, solo un acronimo. Stava per Deposito Industriale Olii minerali”.
Sede in via Mergellina.
“E deposito autobotti a Poggioreale, vicino al carcere. Ti faccio un esempio di napoletanità”.
Quale?
“Visto che papà era stato cacciato dal cane a sei zampe dell’Eni, scelse come simbolo un gatto nero”.
Che c’entra?
“I venditori della Campania dicevano: ‘I napoletani protestano!’. Mio padre fece diventare grigio il gatto e il fatturato aumentò”.
Primo stipendio della tua vita?
“Sei grandi banconote da mille: le stesi in terra davanti alla porta di casa per dire a papà, che si vantava di non sapere quanto mi davano i contabili: ‘Ora sono indipendente!'”.
Perché tuo padre non ti voleva in azienda.
“Mi pretendeva impiegato di banca! Non diventarlo è stato il primo grande successo della mia vita”.
E poi ti sposi contro il suo volere.
“In accademia mi ero innamorato di una compagna: Licia Casassa. Io avevo 22 anni, lei 28. Mi sono sposato di nascosto. Per punirmi lui mi spedisce a Cremona, in una raffineria, e mi degrada”.
Nientemeno. E cosa vai a fare?
“L’operaio specializzato: pensa, controllavo con la pala il grado di viscosità dell’olio”.
Finché?
“Nel 1956, con la crisi di Suez, l’azienda tracolla. Il deposito di Poggioreale viene svenduto a un certo Paul Getty”.
E tu?
“Mi salvo passando a vendere elettrodomestici Triplex. E poi con la pubblicità: serviva qualcuno che disegnasse gli storyboard e io lo facevo presso lo studio in Trastevere di Guido Vanzetti”.
E poi?
“Entriamo nei favolosi anni Sessanta e mi reinvento discografico: prima alla Bluebell Records e poi alla Ricordi”.
Ma come fai??
“Ehhh… Grazie al solito talento. Inizio disegnando etichette e finisco facendo il talent scout, il grafico e il produttore. Ero anche bravino”.
Investi su te stesso con l’Accademia di pittura.
“Segnale premonitore: iniziavo a copiare un ritratto classico e finivo facendone la caricatura senza volerlo, con il professore che – giustamente – mi rimproverava”.
La svolta è l’ingresso a Paese Sera?
Avevano indetto un concorso per illustratori, e mi invento un personaggio malinconico, Stradivarius, che suona il violino e però per vivere fa l’agente di commercio”.
Togligli il violino dalla mano, mettigli la matita…
(Sorriso). “Infatti: Stradivarius ero il me che stavo archiviando”.
Entri negli anni Settanta con la busta paga di Paese Sera.
“Siamo nel 1971: bei tempi, a chiudere il giornale in tipografia veniva Giampiero Mughini, e noi due – entrambi libertari – prendevano in giro gli ortodossi. Mio collega era Franco Bonvicini, che con lo pseudonimo di Bonvi, diventerà poi il geniale autore di ‘Sturmtruppen’. Guadagnavo 900mila lire al mese”.
Che raddoppiano quando Scalfari ti sceglie per fondare Repubblica.
“Anche lì mi presenta Melega. Passai a un milione e mezzo, ma la cosa più importante, è che partecipai al progetto grafico: le colonne di Repubblica sono ‘mie'”.
Il tuo rapporto con Scalfari è un romanzo: dimmi almeno i titoli dei capitoli.
“Ho persino un epistolario, bellissimo, tra noi. Scalfari è un genio, con me è sempre stato generoso e protettivo”.
Da chi?
“Dal popolo dei suoi ufficiali, burocrati, caporedattori e affini, perennemente incazzati con me”.
Addirittura?
“Pensa che io nei ristoranti mi metto sempre spalle al muro, ancora oggi, per un ‘trauma’: si affacciavano al mio box, dietro, per vedere che vignette disegnavo”.
Addirittura?
“Era pieno di aspiranti censori e spioni. Eugenio, che lo sapeva, un giorno affigge un foglio su quella parete: ‘Silent Genius at work'”.
Ah ah ah. Amava le tue vignette?
“Molto. Anche se non ha un grande senso della satira e soffriva quando colpivo i suoi amici. Non voglio sembrare immodesto, ma Repubblica l’abbiamo fatta noi. Lui l’ha fondata, io l’ho arredata!”.
Per sfotterlo disegni te stesso, carcerato, mentre sotto il tiro di Scalfari scolpisci un monumento a Berlinguer.
“Questo era nulla. Un giorno si incazzò via interfono: ‘Giorgio, io ho due amici in politica oggi: Natta e De Mita. Tu in questo mese hai fatto 28 vignette, e tutte contro loro due!!!!'”.
E tu?
“Gli dico: ‘Begli amici che hai!'”.
E poi non era vero, perché erano gli anni di Craxi in stivaloni: ti penti?
“Ma scherzi? Fosse vivo gli chiederei un vitalizio per l’immagine che gli ho regalato”.
Appeso stivalato a testa in giù, stile piazzale Loreto!!!!
“Questa è bella, senti. Mi manda Spadolini come ambasciatore: ‘Bettino non può sopportare l’accostamento al fascismo!'”.
E che hai risposto al presidente del Senato?
“’Presidente, lei è storico: è un Mussolini ma socialista’. Spadolini volle crederci, ma ovviamente era una balla. Durò poco, poi quattro querele. Repubblica uscì con un giochino, ‘Portfoglio'”.
E tu gli mettesti in bocca: “Da quando c’è il Portfoglio lo prendo tutti i giorni”.
“Craxi andò su tutte le furie: ‘Mi sta dando del ladro!'”.
Spadolini lo disegnavi sempre nudo, non protestò?
“Non sarebbe stato elegante. Lui mandò avanti Suni Agnelli”.
Per dire cosa?
“Ah ah ah: ‘Perché gli fai il pisellino mignon? Lo hai visto nudo?’. E io: ‘No, ma sono certo, lo ha così. È un putto’. Rimase interdetta”.
Sei stato fidanzato con Samaritana, nipote di Agnelli.
“Per sei anni, grande storia. E qui c’è una scena da film”.
Perché?
“Quando ci lasciamo l’Avvocato mi invita a pranzo e mi fa: ‘Forvattini lei per me è Il Talento, deve lavorare nel mio giornale. E per meritare la mia offerta principesca dovrà fare sette vignette a settimana, e tutte in prima!'”.
Non sapeva che era Scalfari a pubblicartene solo cinque, e quasi sempre dentro.
“Già! Ma io chiedo: ‘Principesca che significa?’. E lui: ‘Un miliavdo di lire'”.
Era come un milione di euro di oggi.
“Molto di più. Infatti rimango senza fiato. Lui, che aveva standard economici diversi dai miei, pensò che avessi dei dubbi. E aggiunse: ‘Ma Fovattini! È quinquennale, quindi sono cinque!'”.
Lasci Repubblica e nasce la campagna contro Forattini: “miliardario”, “mercenario”, “rinnegato”, “venduto”. “Ha la casa a Parigi”!
“Non sono mai riuscito a difendermi da tutta questa cattiveria. Della casa a Parigi, poi sono orgoglioso”.
Come mai proprio lì?
“Me la fece prendere Renzo Piano, uno dei miei migliori amici: dove l’aveva lui, nel Marais”.
Cattiveria, dici?
Sono stato colpito da odio, invidia, menzogna: ho girato molti giornali perché inseguito da querele e veti”.
Hai rinnegato la sinistra?
“Io non sono mai stato comunista. E neanche di sinistra. Mi considero un borghese ribelle”.
A cosa?
“Alla mediocrità. In un mondo di conformisti sentirsi liberi significa essere ribelli”.
Perdi una causa contro D’Alema, 500 milioni di lire.
“Allora non lo dicemmo a nessuno, ma pagò tutto Panorama. La libertà di stampa è questo”.
Ti sei vendicato disegnando D’Alema, per anni, senza volto.
“I giudici mi hanno condannato spesso per diffamazione a mezzo stampa: Codice Rocco, codice fascista mai cancellato. In Francia, Inghilterra e nei paesi democratici la satira è libera, vola. In Italia se non sei schierato sei ‘fascista’, ‘qualunquista’…”.
La sinistra ama la satira.
“Se non viene colpita sì”.
Lerner raccolse 40 firme contro una tua vignetta in cui la morte aveva una falce con scritto: “1968”. E disse: “Forattini deve tutto al ‘68!”.
“Ridicolo: nel ’68 lui aveva 14 anni, io 37! Non dovevo nulla al ’68, che oltretutto considero, assieme ai sindacati, una disgrazia italiana, la tomba del merito”.
Però nel 1993 vai in tv e dici che la candidatura di Fini a sindaco di Roma, con il Msi, non ti scandalizza.
“Lo ripeterei paro-paro. Anche se pagai un prezzo umano enorme”.
Quale?
“Con ‘Satyricon’, un quartino che dirigevo a La Repubblica, scoprii tanti talenti: Staino, Ellekappa e uno di cui diventai amico: Emilio Giannelli”.
“Scoperto”?
“Era direttore l’ufficio legale del Monte dei Paschi di Siena. Mi invitava ogni anno a vedere il Palio”.
Ma che c’entra con Fini?
“Quando il Corriere mi fece un’offerta io declinai, e dissi: ‘Prendete lui’. È ancora lì”.
Non capisco il legame.
“Dopo quelle parole su Fini, Giannelli mi disegnò sul Corriere, in prima, vestito da balilla, il faccione di Berlusconi e la scritta ‘Sola che sorgi’. Fu un dolore”.
Però avevi trovato la donna della tua vita.
“Vero. Mi chiama una signora dell’ufficio stampa Mondadori per promuovere ‘Pagine gialle’. Mi dice: ‘Sono Ilaria’. Ci siamo visti a Venezia ed è stato subito amore: la fortuna della mia vita”.
Perché?
“È l’unica donna con cui condiviso tutto, satira compresa. Senza di lei non sarei diventato quel che sono”.
E i tuoi grandi amici?
“Oltre Renzo? Purtroppo uno è morto, Umberto Veronesi. E poi Giancarlo Giannini, ridiamo come matti. E in Francia Plantu, vignettista di Le Monde. Vivevamo tre o quattro giorni al mese a Roma, dieci a Parigi, il resto a Milano. Ma ora, da anziano, mi muovo meno”.
Che tipo sei?
Allegro, ma con un fondo di tristezza. Ho vissuto troppo tempo da solo e in troppi posti”.
La satira risente dell’umore?
“La mia prima moglie mi ha portato via i figli quando erano piccoli. Stavano a Chiavari, e io ero disperato”.
E poi?
“Mio figlio Fabio è morto improvvisamente, di infarto. Dolore immenso. Da allora sono l’ultimo Forattini”.
Sei cambiato?
“Molto. Mi sono immerso nel lavoro, senza trovare sollievo. Le vignette si erano incattivite”.
Una delle tue raccolte si intitola: “Una idea al giorno”. È difficile?
“Ho avuto una fortuna: la vignetta arrivava sempre. Talvolta le sognavo di notte, e me le dimenticavo la mattina. Così giravo con taccuino e matita, anche sul comodino”.
Sei stato fortunato?
“Sono stato molto, molto censurato. Ma, se un direttore mi diceva no, io non disegnavo più: ‘Oggi mettici la tua foto'”.
Un altro tuo titolo choc: “Kualunquista”.
“Con la K: meglio che ragionare per partito preso! Io mi considero, con tutti i miei guai, un vincitore”.
Poi torni a La Repubblica.
“Scalfari e Caracciolo vengono a Milano. Andiamo a cena. All’Hotel Et de Milan”.
Un’altra offerta.
“Ottengo la prima pagina di Repubblica e l’Espresso. Caracciolo mi fa: ‘Costi tanto voglio anche gli originali'”.
E tu?
“’Sei matto? Quella è roba mia’”.
Nel 2002 disegni su La Stampa un carro armato con la stella di David che punta il cannone verso una mangiatoia. Un bambino impaurito, con l’aureola esclama: “Non vorrete mica farmi fuori un’altra volta?!”.
“Stupenda. L’avevo dimenticata”.
Possibile? Protestarono la comunità ebraica e Amos Luzzatto!
“Ah sì! Per la prima volta mi chiamo Agnelli: ‘Fovattini, questa mi mettevà in difficoltà’. Mi spiacque per lui, non per Luzzatto”.
L’ultimo che ti seduce è Berlusconi.
“Nel 2006, al Cipriani per il premio Campiello mi fa: ‘Devi vieni a Il Giornale. Se hai un sogno te lo realizzo'”.
E lo avevi?
“Sì! ‘Mi manca solo una cosa, la vignetta animata in tivù’. Mi guarda: ‘La avrai. Lo dico Mentana’”.
E così sei andato a Il Giornale.
“Proprio con Belpietro, Ma la vignetta animata, malgrado Mentana fosse d’accordo, non partì mai. Costava troppo all’epoca!”.
Ma nasce il merchandising forattiniano: non solo i libri, ma penne, carte, orologi, tazze…
(Sorride). “Sono arrivato a guadagnare anche 150mila euro a libro. Ne ho fatti sessanta, 3,5 milioni di copie!”
Vedi che un po’ avido sei?
(Serio). “I soldi erano solo uno strumento per essere libero. Potevo dire no a chiunque, in qualsiasi momento. E l’ho fatto”.
E lasci anche il Giornale.
“Un giorno, dopo le dimissioni di Maurizio, disegnai Berlusconi nudo con un mappamondo tra le gambe che faceva un gesto eloquente con le dita. Mi dissero di no. E io: ‘Addio'”.
Hai mai risentito il Cavaliere?
“Questa è bella. Mi chiama: ‘Mi spiace per il Giornale, non ne sapevo nulla, che brutto!’. E io, stupito: ‘Grazie!’. E Silvio: ‘Senti… ti chiamavo per un’altra cosa: puoi rifare la copertina del tuo prossimo libro Mondadori?’. E io: ‘Ma perché?’. E lui: ‘Mi disegni che bacio D’Alema e scrivi: inciucio!'”.
Ah ah ah.
“Non me lo ricordavo più. Ma non ritirai la vignetta”.
Hai lavorato anche al Qn.
“I Cdr pubblicavano comunicati di fuoco a mia insaputa, senza darmi possibilità di replica”.
Cosa unisce tutta la tua carriera?
“Bene o male ho sempre disegnato per la libertà: la mia libertà intellettuale intendo. E la libertà si paga”.
È vero che non disegni più cose nuove?
“Il forattinismo in sintesi è stato la dissacrazione della politica. Intuivo subito il tallone d’Achille dei leader, e li trafiggevo con la mia matita. Ora i casi sono due”.
Quali?
“O non c’è più sacralità, oppure io sono diventato molto vecchio e non la vedo. In ogni caso non mi ispira più satira”.
E Grillo?
“Per me è sempre e solo un comico”.
E Di Maio, Salvini, il populismo?
“Non mi piace il populismo: dentro di me sono un vignettista aristocratico”.
E chi voteresti?
(Occhi sgranati). “Se riesco ad arrivare vivo al seggio? Per Berlusconi”.
Davvero?
“Per lui mi resta simpatia. E la certezza che ha cambiato l’Italia”.
Ti piace perché è ri-ri-ri disceso in campo?
(Ultimo sorriso forattiniano, freddura romanesca). “Ma che stai addì? Mi ha aiutato molto: è il politico che ho disegnato più di tutti”.
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