Indagati d’Italia: il partito di Giorgia Meloni ha un problema con la legalità
Non solo i saluti romani e l'antieuropeismo. Fratelli d'Italia da decine di dirigenti nei guai con la giustizia. Anche per reati molto gravi
«Prenderemo questo esempio e lo porteremo anche al governo della nazione». Era il 2020 quando, lanciando la candidatura della sindaca Roberta Tintari, Giorgia Meloni definì l’amministrazione di Terracina un modello da replicare all’esecutivo. A distanza di due anni, mentre la leader di Fratelli d’Italia è in testa nei sondaggi e punta a diventare la prima premier donna, quel «modello» è finito con 59 avvisi di garanzia, 13 misure cautelari e l’arresto della stessa Tintari. Ma l’inchiesta della Procura della Repubblica di Latina che ha fatto crollare rovinosamente la roccaforte di FdI in terra pontina non è isolata. Non è un semplice incidente di percorso nella marcia degli eredi del Movimento Sociale e di Alleanza Nazionale verso palazzo Chigi. Negli ultimi anni si susseguono indagini a carico di esponenti del partito della Meloni in mezza Italia. Ecco, dunque, un altro pericolo. Da una parte c’è quello, più volte agitato del fascismo e dell’antieuropeismo, di chi ammicca agli estremisti e ai razzisti, fa il saluto romano e flirta con le anime nere di mezzo mondo, e dall’altra c’è quello della legalità. Tanto che storici esponenti di FdI, quando si lasciano andare a delle confidenze a microfoni spenti, ammettono: «Non abbiamo classe dirigente».
Il nodo
Ministro della Gioventù ad appena 31 anni, con l’ultimo governo di Silvio Berlusconi, e subito inquadrata come l’astro nascente della destra italiana da Gianfranco Fini – quello stesso leader di An che lei poi bollerà come un traditore – Giorgia Meloni ha compiuto una carriera politica sfolgorante. Ora però, mentre si sente già la vittoria in tasca e dopo che ha ridimensionato il leader leghista Matteo Salvini, il problema non sembra più solo quello delle idee, delle braccia tese o di qualche camerata di troppo. Il fronte della legalità è critico per la presidente di FdI. Il suo non è più un partitino e sembra difficilmente controllabile. Sono lontani i tempi in cui il confronto era tutto con il gruppo dei Gabbiani e lo storico esponente dei missini di Colle Oppio, Fabio Rampelli, o con i fedelissimi Guido Crosetto e Ignazio La Russa. L’aspirante premier continua a confidarsi con il suo cerchio magico, con la sorella e il cognato Francesco Lollobrigida, ma fuori da quel cerchio c’è molto di più e spesso non sembra esserci molto di buono. Il caso Latina è emblematico.
Manette nella ex palude
Quante volte “Khy-ri”, come si faceva chiamare la Meloni quando frequentava la chat di Undernet Italia e sfogava la sua passione per il fantasy, ha percorso la Pontina, divorando quei settanta chilometri che separano Roma da Latina, e si è recata nel capoluogo pontino. Lì ha legami solidi. Tanto che nel 2018 è stata eletta alla Camera proprio nel collegio di Latina. Anche se la leader di FdI glissa sull’argomento, proprio dal capoluogo pontino le sono arrivati però i primi imbarazzi notevoli.
Giovanni Di Giorgi, suo amico ed esponente di Fratelli d’Italia, ha visto la sua giunta crollare sotto i colpi delle indagini, arrivate a ipotizzare la costituzione di ben tre associazioni per delinquere all’ombra del Comune sotto la sua consiliatura. Un sindaco finito anche in carcere, per poi eclissarsi dalla politica, e che dopo un simile naufragio ha visto nel 2016 trionfare i civici con il cuore a sinistra, che hanno preso la guida dell’amministrazione comunale per un ventennio retta dalle destre. Con lui è stato detto addio a quello che era considerato il laboratorio nero.
Nello stesso periodo a Latina era inoltre assessore ed è poi stato eletto deputato Pasquale Maietta. L’onorevole, un commercialista, era uno degli uomini su cui puntava il partito. Sembrava inarrestabile. Presidente del Latina Calcio, portò la squadra in serie B e la Meloni allo stadio era ospite d’onore. Poi si scoprirà che ad accompagnare i vip in tribuna c’era il boss Costantino “Cha Cha” Di Silvio, amico Di Maietta, e che il deputato, nominato anche tesoriere di FdI a Montecitorio, per la mafia rom sarebbe stato il punto di riferimento. Accusato anche di aver riciclato enormi somme di denaro in Svizzera, pure lui è finito in carcere, i processi sono in corso e la Dda di Roma ha da tempo acceso un faro sulle campagne elettorali affidate al clan Di Silvio, gli stessi a cui avrebbe chiesto di compiere per lei delle estorsioni l’ex consigliera regionale di centrodestra Gina Cetrone, passata da FdI a Cambiamo con Toti, a sua volta finita dietro le sbarre e attualmente imputata.
La Meloni è tornata nel capoluogo pontino nel 2021, invitando a votare i suoi candidati alle elezioni comunali. Abbracci, sorrisi, photopportunity sul lungomare, ma ecco che, a 24 ore di distanza dall’abbraccio con il suo capogruppo, anche quello immortalato e diffuso sui canali social, è emerso che il locale esponente di FdI Andrea Marchiella era un pregiudicato. «Non avevo detto nulla, non votatemi», si è giustificato lui, una volta smascherato su una condanna definitiva per reati societari.
Perso ormai dal 2016 il capoluogo pontino, restava Terracina, dove da vent’anni fino al mese scorso l’amministrazione era sempre stata di destra, prima con un sindaco di An e poi di FdI. La città balneare – a lungo retta dall’eurodeputato di FdI Nicola Procaccini, e poi passata a Roberta Tintari – era considerata appunto un «modello da esportare». La Meloni non si era preoccupata troppo quando all’inizio dell’anno era finito ai domiciliari il vicesindaco Pierpaolo Marcuzzi, pronto a una candidatura per le regionali con Fratelli d’Italia. Non sarebbe rimasta turbata neppure dalla scelta di Procaccini di ingaggiare proprio Marcuzzi come collaboratore a Bruxelles. Ma ecco che in arresto questa volta è finita la stessa sindaca e Procaccini, uno degli uomini più vicini alla leader, è stato raggiunto da un avviso di garanzia. Una maxi inchiesta sulla gestione delle spiagge ha messo in luce un sistema di pressioni, favori e abusi ignorati, con regole calpestate in riva al mare in cambio di voti. Tanto che alcuni imprenditori finiti nelle maglie di Mafia Capitale avrebbero spostato i loro affari sul litorale terracinese, uno dei quali conosciuto da Procaccini proprio ai tempi in cui era portavoce dell’allora ministro Meloni. Gli indagati? Ben 59. E come se non bastasse diversi sono gli esponenti di FdI che, in base a quanto riferito dai pentiti alla Direzione distrettuale antimafia di Roma, avrebbero ingaggiato il clan Di Silvio per comprare voti e fare attacchinaggio. Rivelazioni su cui le indagini sono in corso, ma su cui alcuni processi sono già arrivati a sentenze definitive, trasformando quelle che erano ipotesi in verità giudiziarie. Quello pontino è però solo un esempio delle tante grane che big e gregari di Fratelli d’Italia stanno avendo sul fronte giudiziario.
Indagati ovunque
A Milano ha fatto rumore il caso della “Lobby nera” al centro dell’inchiesta di Fanpage, che ha portato la locale Procura ad aprire una delicata inchiesta. La consigliera comunale Chiara Valcepina è tra gli indagati e gli inquirenti hanno ipotizzato, a vario titolo, i reati di riciclaggio e finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio. E ad essere indagato è stato subito pure l’eurodeputato Carlo Fidanza, anche lui di Fratelli d’Italia e vicinissimo alla leader. Il parlamentare europeo, che per quella vicenda si è autosospeso dal partito, parlando con un giornalista di Fanpage ha descritto le modalità con cui era possibile far avere al partito denaro in nero da utilizzare in campagna elettorale: «Abbiamo le lavatrici per fare il black». E come se non bastasse nel giugno scorso è stato pure indagato per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio relativamente alle dimissioni del consigliere comunale Giovanni Francesco Acri, il cui figlio sarebbe stato assunto da Fidanza come suo assistente. Un sistema che avrebbe avuto come capo Roberto Jonghi Lavarini, il cosiddetto «barone nero», neonazifascista candidato nel 2018 proprio da FdI e già condannato a due anni di reclusione per apologia di fascismo aggravata dall’odio razziale.
Restando al Nord c’è poi l’indagine della Procura di Piacenza sul deputato Tommaso Foti, accusato di corruzione e traffico di influenze. Per gli inquirenti, il fratello d’Italia, insieme all’assessore comunale Erika Opizzi, anche lei di FdI, si sarebbe fatto promettere dall’imprenditore Nunzio Susino denaro come prezzo «della propria mediazione illecita» affinché il Comune procedesse con il cambio di destinazione d’uso di alcuni terreni. A Siena è stato indagato il deputato Salvatore Caiata, ex pentastellato saltato sul carro della Meloni, accusato di autoriciclaggio nell’inchiesta Hidden Partner. Un uomo che era stato scelto anche come segretario regionale in Basilicata nonostante proprio per una prima grana giudiziaria fosse stato allontanato dall’ex capo dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio. E il Tribunale di Asti ha condannato a cinque anni di carcere Roberto Rosso, per voto di scambio politico-mafioso.
Difficoltà che sono però nulla rispetto a quelle che Fratelli d’Italia sta avendo al Sud, nelle regioni d’origine di quelle che investigatori e analisti definiscono mafie tradizionali. A Palermo, in occasione delle ultime elezioni amministrative, ancor prima che si aprissero le urne è stato arrestato Francesco Lombardo, candidato di FdI, accusato di voto di scambio e, nello specifico, di aver incontrato Vincenzo Vella, boss di Brancaccio, per chiedergli sostegno elettorale. «La criminalità organizzata è il nostro primo nemico», hanno subito specificato in quell’occasione dal partito. Ma l’elenco degli uomini della Meloni ritenuti vicini ai clan è lungo. Prima di tornare in Forza Italia lo scorso anno, un ruolo di primo piano in FdI lo aveva del resto in Calabria l’avvocato Giancarlo Pittelli, arrestato nel 2019 nell’ambito dell’inchiesta Rinascita-Scott sulla cosca Mancuso della ’Ndrangheta di Vibo Valentia e poi arrestato di nuovo nel 2021 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nell’ambito di un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria su un traffico di rifiuti gestito dalla cosca Piromalli. E pensare che, il 15 aprile 2017, proprio la Meloni twittò: «La comunità di FdI cresce, si rafforza e dà il suo benvenuto a Giancarlo Pittelli: un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia». Valore di cui ben presto forse avrebbe preferito fare a meno. Sempre in Calabria è poi stato arrestato tre anni fa per mafia l’ex consigliere regionale Alessandro Niccolò, finito nell’inchiesta Libro Nero sulla cosca Libri, che era stato scelto dalla Meloni come coordinatore provinciale di Fratelli d’Italia a Reggio. In manette è finito pure il consigliere regionale Domenico Creazzo, incappato nell’inchiesta Eyphemos della Dda di Reggio Calabria con l’accusa di voto di scambio politico-mafioso con la potente e temuta cosca Alvaro di Sinopoli.
Quadro pesante pure in Campania. La Procura di Napoli ha indagato l’ex candidato alla Camera ed ex consigliere regionale Luciano Passariello in un’inchiesta sullo smaltimento dei fanghi, e il consigliere comunale di Battipaglia, in provincia di Salerno, Franco Falcone, è stato arrestato con l’accusa di concussione. In Puglia, infine, arrestato Andrea Guido, consigliere comunale di Lecce, coinvolto in un’inchiesta sul clan camorristico Moccia e accusato di corruzione.
I paradossi
Abbastanza forse per dire che oltre al problema fascismo c’è quello legalità. Su tale fronte però la Meloni, come Salvini, batte quasi esclusivamente sui migranti.
Le indagini che hanno travolto i fratelli sembrano essere considerate quisquilie rispetto alla presunta emergenza nazionale rappresentata dagli sbarchi. «È arrivato il momento di porre fine alle politiche immigrazioniste di certa sinistra, che ha spalancato i nostri confini all’immigrazione clandestina di massa», ha scritto la leader di FdI il 28 luglio scorso. Per lei l’emergenza sembra appunto quella. Sicuramente comoda per raccogliere like sui social. Eppure qualche imbarazzo soprattutto le indagini per mafia dovrebbero crearlo alla presidente di Fratelli d’Italia.
Giorgia Meloni ha detto più volte che ha deciso di impegnarsi in politica dopo le stragi dei corleonesi, dopo l’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ha più volte definito la lotta alla mafia «il primo problema da risolvere». Da risolvere a quanto pare anche all’interno del suo partito con cui vuole porsi alla guida del Paese.