Furfaro a TPI: “Elly Schlein sarà la prossima premier”
"Era incerta se candidarsi alle primarie. Ma io le dissi: vinceremo. Succederà la stessa cosa col governo del Paese. Il segreto? Tornare fra le persone". Intervista al braccio destro della segretaria Pd
Onorevole Furfaro, dopo l’annuncio della nuova segreteria del Pd Libero ha pubblicato la sua foto in prima pagina col titolo: “I mostri della Schlein”.
(Sorriso). «Ottimo. Di Libero mi preoccuperebbero eventuali elogi. Non certo i suoi insulti quotidiani».
Scrivono che Schlein e voi della sua nuova squadra siete il colpo di grazia per il Pd.
«Sono spiazzati dalla figura Elly, è chiaro».
Cioè?
«Io credo che Elly Schlein sarà la nuova presidente del Consiglio dopo Giorgia Meloni».
La immagina come candidata alla guida della coalizione alle politiche?
«Certo. Ha un pubblico largo, raccoglie stima trasversale, simpatia e anche affetto. È un’onda che abbiamo imparato a conoscere nelle primarie. Sta crescendo ancora».
Lei è uno dei dirigenti più vicini a Schlein. Mi sta dando una notizia.
(Ride). «Che Elly possa diventare capo del governo? Guardi, io ero tra i pochi che erano sicuri della vittoria alle primarie. È una profezia, semmai».
Marco Furfaro, 42 anni, economista. Viene dai movimenti, è l’ultimo discepolo di Nichi Vendola. Diventa dirigente del Pd con Zingaretti, è noto al pubblico come polemista coriaceo nei duelli con la destra in tv. Doveva essere vicesegretario, ma – per via del braccio di ferro con la minoranza (che ne voleva uno per sé) – non c’è stato nessun vice. Anche senza galloni sulla giubba, tuttavia, è considerato il numero due maschile di Schlein. Ha un figlio di 2 anni, Mattia. E la sua compagna, Mapi – conosciuta nei movimenti – insegna italiano e storia a Ostia.
Da che storia viene?
«Da una famiglia mista. Toscana dal lato materno, ma per metà di origine calabrese. I nonni di mio padre approdarono in Toscana per cercare fortuna, e poi sono emigrati in America».
Dove è cresciuto?
«Agliana, provincia di Pistoia. Un confine invisibile tra due mondi. Verso il Tirreno, nel pistoiese: da lì in poi trovi solo vivai. E verso Firenze, nel pratese, dove è tutto tessile».
Che facevano i suoi?
«Gli operai: mio padre garzone da un elettricista, mia madre addetta in un’azienda tessile».
Diversi?
«Sole e luna. Mio padre Angelo superterrone: anche fisicamente sono scuro come lui. La famiglia di mia madre, Margherita, non voleva le nozze: così si sposarono alle 6 del mattino. Viaggio di nozze in Fiat 500».
Dopo aver lavorato al telaio in fabbrica, sua madre iniziò a cucire a casa.
«Le davano maniche e parti di maglia e lei si accecava gli occhi sull’ordito per rimettere tutto insieme».
Perché i nonni erano ostili?
«Perché papà era squattrinato, non certo un buon partito. Da autodidatta leggeva Pasolini».
Di sinistra?
«Al cubo: lui comunista. Mia madre democristiana, ma aperta».
E lei?
«Sono cresciuto con il mantra di Pietrangeli come progetto di vita: “Anche l’operaio vuole il figlio dottore”».
E poi?
«Eravamo piccoli e mio padre si iscrive alle serali per un concorso all’Enel. Lavora, studia, e poi va a scuola dopo cena. Un esempio».
E vince?
«Sì: e la nostra vita migliora. Ferie, stipendio fisso. Anche se sempre pochi soldi a casa».
Lei va all’università.
«Per tre motivi: la borsa di studio della Regione Toscana che vinsi per merito. I 700 euro al mese che guadagnavo giocando a calcio. E mia sorella Silvia, che andò a lavorare subito, per aiutare. Successivamente ha fatto anche lei l’università: ora è avvocato».
Superiori dove?
«L’Igea, cioè ragioneria, non potendo fare il classico».
Poi si laureerà in Economia. E all’università sarà rappresentante di facoltà.
«Pensi che il mio rivale di destra era Giovanni Donzelli (oggi deputato di FdI, ndr), poco più grande di me».
Le dava filo da torcere?
«Scherza? La sinistra aveva percentuali bulgare, Azione Giovani prendeva tra lo 0 e il 5%: lottavano per eleggerne uno. Provavo tenerezza per quella destra un po’ “panda”. I fasci da noi erano una specie protetta».
La politica universitaria?
«Grande palestra. Ma dopo ho avuto un rigetto».
Perché?
«Il preside mi dice: “Dai, te ne vai a fare un dottorato…”».
E lei?
«Resto schifato e me ne vado il Europa».
Cervello in fuga?
«Mi ritrovo a fare il cooperante a Mostar, in Bosnia. Esperienza pazzesca».
Racconti.
«Lavorare nella stessa strada che divideva due famiglie come un confine. Erano stati amici, poi si erano sparati, fori di pallottole sui muri. Ferite profonde, e campi minati nei sentieri di campagna».
Ma il progetto cos’era?
«Una follia! La conversione al biologo dell’agricoltura».
Organizzato dal ministero degli Esteri.
«Io curavo la contabilità, aiutando i contadini a fare i bilanci del piano. Giravo con il portatile e le tavole Excel. Mi accoglievano, anche di prima mattina, dicendo: “Beviamoci una vodka!”. All’una vedevo le cifre ballare».
Ah ah ah.
«Freddo cane, case con metà tetto distrutto, alcool distillato in cantina. I giorni più belli della mia giovinezza».
E poi?
«Vado a Bruxelles con la mia compagna di allora, Rosita. Mando ingenuamente il mio curriculum ai parlamentari europei del centrosinistra».
Ingenuamente perché gli strapagati assistenti venivano dai partiti?
«Ovvio. Ma invece faccio bene, perché uno di loro, l’astronauta Umberto Guidoni, con piglio da scienziato, fa colloqui e mi prende».
Ha conosciuto Francesco Giorgi, quello del Qatargate?
«Mi hanno detto che c’era. Ma eravamo in gruppi diversi. Ci saremo visti di sicuro, ma non lo ricordo».
Fa il concorso per la Commissione europea.
«E lo vinco! Toccavo il cielo con un dito: tempo indeterminato, contributi, benefit…».
E perché non è ancora lì?
«Per una folgorazione. Conosco Nichi Vendola a Bruxelles, serata organizzata dall’associazione per la sinistra di cui ero segretario. Parliamo. Rimango incantato. Decido di seguirlo. Torno in Italia e sono tra i fondatori di Sel».
Mollando il posto fisso? Zalone inorridirebbe.
«Nessun rimpianto. Anche se ho dovuto fare salti mortali per mantenermi».
Come?
«Divento segretario di Frascati Scienza, che organizza la notte europea dei ricercatori, e tanti mini eventi. Ma è un part time: di giorno politica, di notte faccio revisione bilanci».
Conosce Schlein.
«A una manifestazione contro la precarietà. E poi la ritrovo in tutto questo difficile cammino tra partiti e movimenti».
Esce da Sel quando vince Fratoianni.
«Era finito un ciclo. Ma era anche un bivio di identità. Per me la politica era – ed è – ideali che si declinano nella concretezza del governo. Non solo testimonianza».
È severo con i suoi ex compagni.
«È un fatto. Tutto ciò che è nato a sinistra del Pd non ha funzionato».
Diventa il braccio destro di Giuliano Pisapia, quando stava per entrare nel Pd.
«Pensi. Non riuscimmo a fare l’alleanza per la rottura sullo Ius soli, che Renzi non voleva».
Pisapia si ritira.
«Il Pd mi propose la lista civetta “Insieme”. Preferii saltare il giro. Fondai Futura».
Ma nel Pd poi ci entra.
«Solo quando finì l’età renziana».
Dopo le primarie vinte da Zingaretti.
«Nicola mi nominò in direzione nazionale. Pensi che Scalfarotto usò toni da Libero contro di me: “Il Pd sta diventando un partito di estremisti!”».
Cosa pensa di quella stagione?
«Nicola ha avuto il merito storico di salvare il Pd dal renzismo. Ma non il tempo per farcela. È stato sfortunato. Aveva i parlamentari scelti da Renzi, i capigruppo ostili…».
Ecco perché ha consigliato a Schlein di cambiarli.
«Era un atto dovuto per rispondere alla richiesta di cambiamento delle primarie. Nulla di personale».
Cosa non riuscì a Zingaretti che Schlein può fare?
«Nicola provò a governare quel partito in mondo unitario. Ma allora era impossibile: se dicevi una parola contro il Jobs Act ti fucilavano».
Ed Elly?
«Il titolo della manifestazione dove ci conoscemmo era “Il nostro tempo è adesso”. Profetico».
Lei nel 2014 si era candidato alle europee con la lista Tsipras.
«Feci l’exploit: 25mila voti. Sarei stato eletto, perché Barbara Spinelli aveva annunciato che si sarebbe dimessa».
Invece non si dimise, lasciò il gruppo e smise di pagare i contributi.
«Che dire? Rimasi basito e deluso».
Nel Pd lei ha organizzato con Zingaretti “Piazza Grande”.
«Corteggiavamo Elly. Ma lei fondò la lista Coraggiosa, a Bologna. Quando il Pd di Letta ci ha candidati entrambi, abbiamo fatto la campagna elettorale insieme».
E dopo la sconfitta?
«Elly si diceva incerta. Io le dico: “Candidati! Vinceremo”».
Ma ci credeva davvero?
«Ero certo. Il Pd era diventato un partito più realista del re. Serviva uno choc».
Lei diventa portavoce nazionale della mozione.
«Gennaio 2023. Eravamo in Transatlantico, ed Elly mi fa: “Avrei pensato, se ti va bene, di farti portavoce”.
Non eravate molti.
«C’erano Gaspare Righi, il suo braccio destro. Chiara Braga, coordinatrice dell’iniziativa politica. Flavio Alivernini il capoufficio stampa. Chiara Gribaudo, Marco Saracino, Antonio Misiani, Alesandro Zan… Punto. E contro avevano tutti. Senza soldi! Senza struttura! È stato esaltante».
E dopo la vittoria?
«Elly non ha sbagliato una mossa. Andare a Cutro senza esporsi, polarizzare la sfida con la Meloni alla Camera. La piazza arcobaleno di Milano, la manifestazione di Firenze, il comizio a Libera, con 70mila persone…».
Il segreto?
«Tornare tra le persone».
La più grande novità?
«Dire una cosa significa farla. Elly è pragmatica».