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Ue, le destre non sono tutte uguali ma ora anche il Ppe può radicalizzarsi

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Da destra: Marine Le Pen, fondatrice del Rassemblement National; Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia; Tino Chrupalla, leader dell’AfD. Credit: AGF e AP

Le elezioni hanno certificato l’avanzata di Rassemblement National, FdI e AfD. L'Europa s'è destra?

Non tutte le destre sovraniste sono uguali, soprattutto quando i sondaggi le danno in odore di governo. Ed è così che le differenze tra queste diverse forze politiche – messe per anni nello stesso calderone per una serie di inequivocabili tratti comuni sebbene siano caratterizzate dalle storie più disparate – si fanno sempre più evidenti in un’Europa che guarda ad esse mentre è alla ricerca di un posto in un mondo segnato dalla frammentarietà. In tal senso, il caso di Francia e Germania, alla luce del voto delle recenti europee e in vista delle elezioni legislative transalpine, risulta particolarmente emblematico.

Il piano di Marine
In Francia, da anni, quello che fino a poco tempo fa si chiamava Front National gode di un consenso che ha portato la sua leader Marine Le Pen a ben due ballottaggi presidenziali e il partito a essere il più votato in più di una elezione.

Questo ha condotto Le Pen a una decisione che potremmo definire una versione francese della svolta di Fiuggi, cambiando lo storico nome del partito in Rassemblement National per puntare alla trasformazione in forza nazional-conservatrice in grado di lasciare alle spalle l’etichetta post-fascista legata al padre Jean-Marie e di rompere quella conventio ad excludendum che, in nome della difesa della Republique, portava tutti i partiti da sinistra a destra a unirsi di fronte al rischio che un candidato del Front National potesse vincere in qualsiasi voto locale o nazionale.

Con un consenso crescente, Marine Le Pen aveva sempre maggior bisogno di erodere voti anche a gollisti e centrodestra tradizionale, ma per farlo doveva presentarsi in modo differente per evitare quanto accaduto nel 2002 al padre, arrivato a sorpresa al ballottaggio – complice la frammentazione della sinistra transalpina – e trovatosi contro un fronte trasversale unitario che portò al presidente uscente Chirac un plebiscito e a Le Pen grossomodo gli stessi voti del primo turno. 

Per superare questo limite, tuttavia, il cambio di nome ha rappresentato solo un piccolo passo. Oltre a questo, Marine Le Pen ha aperto a figure di destra più moderate del Front National e non tacciabili di aderire alla stessa tradizione del partito fondato da suo padre – come il conservatore Nicolas Dupont-Aignan, proposto come primo ministro dalla stessa Le Pen nel 2017 – e soprattutto ha valorizzato figure nuove estranee alla sua famiglia, per evitare che il Rassemblement National non sembrasse agli occhi dell’opinione pubblica come un partito settario che passava di mano di padre in figlia. 

È così che è spuntato il giovane prodigio della destra francese, il classe 1995 Jordan Bardella, frontman di RN alle ultime europee, l’uomo che ha messo insieme a Le Pen il volto e il nome sul 32 per cento – massimo storico, nonché più del doppio del consenso ottenuto dal partito di Macron – che ha sconvolto la politica francese al punto da portare il capo dello Stato allo scioglimento anticipato dell’Assemblea Nazionale con annessa convocazione delle elezioni anticipate. 

Ma per sostituirsi al centrodestra tradizionale – rappresentato da Les Republicains, partito che ormai sembra solo lo spettro di ciò che furono gli eredi di de Gaulle e del centrodestra orleanista, ridotto al 7 per cento alle europee – serviva anche un lavoro su alcuni temi.

E così, le vecchie posizioni a sostegno dell’uscita da Euro e Nato sono state ammorbidite, contribuendo a mostrarsi agli occhi della comunità internazionale come un partner più affidabile e all’elettorato più moderato come una forza credibile, pronta a dar battaglia contro la sinistra woke e a difendere un ceto medio alle prese con le sue difficoltà, ma senza stravolgere il posto della Francia nel mondo. 

In questo lavoro di riposizionamento è stato necessario, in Europa, prendere le distanze da partiti visti dall’opinione pubblica come particolarmente estremisti, primo tra tutti il tedesco Alternative für Deutschland. 

Involuzione teutonica
Alle ultime elezioni europee l’AfD è uscito con un clamoroso secondo posto alle spalle del tandem Cdu-Csu, ovvero il centrodestra tradizionale di cui fa parte Ursula von der Leyen. 

Al contrario del Rassemblement National, negli anni questo partito non ha moderato in alcun modo le proprie posizioni, ma anzi ha fatto il percorso contrario. Nato come una forza di intellettuali contrari al sostegno ai Paesi dell’eurozona più indebitati, nel corso del tempo Alternative für Deutschland si è radicalizzato sempre di più fino a posizionarsi all’estrema destra, attraendo consenso soprattutto nelle aree più povere della Germania orientale. E non sono mancate uscite che hanno fatto molto discutere, in un Paese che ancora oggi ha un rapporto complesso col suo passato nazista, come l’affermazione del suo esponente Maximilian Krah, che ha detto di non sentirsela di ritenere criminali tutti i membri delle SS. 

Posizioni che rendono l’AfD inavvicinabile agli occhi dei partiti tradizionali in Germania, ma che pongono un problema serio nella politica teutonica, per anni assolutamente stabile ma oggi in balia del crollo dei socialdemocratici e della crescita dell’estrema destra, a fronte di un centrodestra che invece continua a mostrarsi solido. Proprio quest’ultimo fatto contribuisce a tenere l’AfD lontano da un percorso di avvicinamento ai moderati simile a quello avviato da Marine Le Pen in Francia. 

Nuovo popolarismo
Se il centrodestra tradizionale in buona salute è il principale argine all’avanzata delle forze più estremiste, e se forse è anche questo che continua a tenere i nazionalisti spagnoli di Vox in un limbo (alle europee hanno fatto poco meno del 10 per cento), il Regno Unito, che sondaggi alla mano si appresta ad assistere il prossimo 4 luglio a un boom dei laburisti e a un tracollo storico dei conservatori, è un Paese da tenere seriamente d’occhio. 

Probabilmente, infatti, è stato il concreto rischio di marginalizzazione che stanno correndo i Tories a far tornare in campo, a sorpresa, Nigel Farage, il grande artefice della Brexit che, raggiunto l’obiettivo, sembrava non avere più nulla da chiedere alla politica britannica ma che oggi, sotto le insegne di Reform Uk, è pronto a fare battaglia non per vincere, ma per togliere ai conservatori il ruolo di principale opposizione nel Paese.

Un piano che magari potrebbe rendere ancora più rotonda la vittoria laburista ma che potrebbe anche portare a uno stravolgimento storico della politica d’Oltremanica, radicalizzando notevolmente le posizioni del centrodestra britannico a spese di un Partito conservatore più debole che mai. 

Mentre l’Europa è in attesa di sapere se Ursula von der Leyen sarà di nuovo alla guida della Commissione, il Partito popolare europeo, tradizionale casa del centrodestra continentale, sembra sempre più guardare a destra e in molti Paesi, a partire dall’Italia, prendono piede realtà dalla storia più radicale di quella del popolarismo con cui lo stesso Ppe e la stessa Von der Leyen hanno aperto in più casi un canale di dialogo. Ciò, da un lato, ha portato queste forze ad aprirsi a posizioni più moderate ed europeiste ma, da un altro, ha spostato a destra la politica dei popolari, disegnando così una nuova Europa più radicalizzata che dovrà fronteggiare crisi belliche, energetiche, economiche e migratorie.

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