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Home » Politica

Europee, Federico Dolce (Pace, terra e dignità) a TPI: “Mandiamo a casa i politici che traggono benefici dalla guerra”

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Per il coordinatore in Italia del partito progressista transnazionale Mera25, mettere fine alle guerre che circondano l’Europa è la base “per avere migliori servizi pubblici, sanità, salari, pensioni, tutela dell’ambiente”. Ma dobbiamo cambiare le nostre leadership e “avviare una nuova dottrina, dove la convivenza sostituisca il dominio occidentale che abbiamo sempre dato per scontato”

“La pace è l’architrave per il progresso, per lo sviluppo, per la lotta alla crisi climatica, per qualsiasi speranza dei cittadini per un futuro migliore”. Federico Dolce è il coordinatore in Italia del partito progressista transnazionale Mera25 e si candida alle elezioni Europee nella lista “Pace, terra e dignità” con Michele Santoro, Piergiorgio Odifreddi, Vauro e tanti altri. Per lui, mettere fine alle guerre che circondano l’Europa non è solo una questione umanitaria ma rappresenta la base “per avere migliori servizi pubblici, sanità, salari, pensioni, tutela dell’ambiente”. Ma per raggiungere l’obiettivo serve cambiare approccio in sede internazionale e, soprattutto, “sostituire le nostre leadership che dallo scontro traggono solo benefici e non hanno nessun incentivo nell’immediato a terminare le stragi”.
Partiamo dallo slogan della sua campagna: “Liberiamo la pace”, una parola che abbiamo sentito poco nel dibattito pubblico degli ultimi due anni. Perché?
«Abbiamo sentito poco parlare di pace perché abbiamo completamente cancellato dal nostro vocabolario il valore stesso della pace. Ora lo traduciamo con “resa”, “sconfitta” o “tradimento”. L’unica pace che abbia senso perseguire oggi è la “pax romana”, ossia non la convivenza tra i popoli, ma quella desolazione che segue il completo annichilimento del nemico. Una completa isteria mediatica incentrata su sgangherati e non meglio definiti “valori occidentali” da difendere, con un solo obiettivo: farci dimenticare 20 anni di compiaciutissimi affari e accordi con il mostro Putin in un caso, molti più anni di sonnolenta accidia e connivenza con un regime di apartheid e persecuzione nell’altro».

Che cosa proponete per promuovere la pace dentro e fuori i confini dell’Europa?
«Per perseguire la pace sono necessarie due cose: far rendere conto delle proprie responsabilità a chi ci ha governato fin qui, e un nuovo approccio verso la comunità internazionale che è l’unico alveo in cui questi conflitti possono finire».

Quindi basta inviare armi all’Ucraina e imporre sanzioni alla Russia?
«Avete provato a fare la lista degli armamenti che abbiamo fornito che sarebbero dovuti essere risolutivi? Quelle armi “gamechanger” che avrebbero definitivamente posto fine al conflitto? Prima erano i Javelin, poi gli Himars, poi gli Harpoons, poi ancora gli MLRS, i Leopard 2 e così via. Ad ogni invio, si alzava l’asticella dall’altra parte. Una escalation da manuale, che sarebbe sembrata assurda a chiunque ma c’è un complesso militare su cui si poggiano i bilanci di molti Paesi a cui questa guerra non è dispiaciuta, e molti altri governanti Europei ne stanno approfittando per applicare un bel po’ di “retorica di guerra” anche al proprio interno, così da placare rivendicazioni sociali e riacquistare il controllo perso verso i propri cittadini. Questa non è una guerra che si può vincere militarmente – soprattutto visto che “la vittoria” non ha dei chiari termini per essere raggiunta, a molti non basterebbe neanche tornare ai confini pre-invasione della Crimea – ma può terminare solo con la diplomazia».

Come?
«L’intero approccio occidentale è sempre stato quello del “faro guida della civiltà: se non fai affari con noi, non sopravvivi”. Ma ora non funziona più così, le sanzioni si sono rivelate inutili ad isolare la Russia – utilissime invece a pesare sulle nostre tasche – perché gli equilibri internazionali sono cambiati. È ora di prenderne atto, di avviare una nuova dottrina, dove la convivenza sostituisca il dominio occidentale che abbiamo sempre dato per scontato. Stiamo già vedendo segnali in atto nel mondo di questo spostamento, che non deve per forza determinare la nostra rovina, anzi.
Dobbiamo però sostituire le nostre leadership che dallo scontro traggono solo benefici e non hanno nessun incentivo nell’immediato a terminare le stragi».

Da mesi si parla di “esercito europeo”. Voi siete contrari, perché?
«Abbiamo assistito a 20 anni di immobilismo nel processo di integrazione europea. Una situazione congelata in maniera squilibrata, dove il mix di alcune libertà e certi vincoli favoriva certi Paesi a scapito di altri, mentre le élite hanno fatto affari d’oro a scapito dei cittadini che vedevano i propri salari fermi, lo stato sociale dissanguato, perso il lavoro e anche il welfare. E ora ci dicono che il prossimo capitolo dell’integrazione sarà un’unica forza armata? Un esercito potentissimo senza un adeguato potere politico democratico, trasparente e rappresentativo a cui deve rispondere? Abbiamo visto la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen fondamentalmente riscriversi i Trattati da sola e arrogarsi poteri di politica estera, internazionale e di difesa senza che nessuno alzasse la mano, e ora vogliamo condire questa crisi con un super esercito senza controllo? Senza contare il chiaro messaggio per le nostre economie: con la firma del nuovo “Fiscal compact” si torna all’austerità per qualsiasi spesa “cattiva” come ospedali, scuole, pensioni, welfare, ma per la difesa no, per la difesa possiamo – dobbiamo – spendere il più possibile. Qualsiasi lotta sociale noi abbiamo in mente per il nostro futuro: salari più alti, pensioni dignitose, sanità e scuola pubbliche funzionanti, una giusta transizione ecologica con l’economia di guerra finiscono fuori dalla finestra. E lo stesso vale per i diritti civili: società egualitaria? Lotta all’omotransfobia? Una libera informazione? C’è la guerra signori e signore, cosa siete spie del nemico?».

Cosa proponete in alternativa?
«La pace è l’architrave per il progresso, per lo sviluppo, per la lotta alla crisi climatica, per qualsiasi speranza dei cittadini per un futuro migliore».

Da un fronte all’altro: come si ferma la guerra in Medio Oriente?
«Da anni sosteniamo come l’unica via per la pace in Medio Oriente passi per un radicale cambiamento della società Israeliana, che deve abbandonare il regime di apartheid e di occupazione militare. Questo avveniva molto prima del 7 ottobre e dei mesi di brutale massacro nella Striscia».

Quale ruolo può giocare l’Ue?
«L’Europa è rimasta ostaggio dell’insensato ed entusiastico appoggio incondizionato della Von der Leyen che ha certificato la carta bianca di cui Netanyahu ha largamente fatto uso nel mettere in pratica una vendetta spietata e un genocidio sanguinario. Lentamente molti Paesi però hanno detto di no: Irlanda, Spagna e molti altri stanno dando un impulso notevole che ha per prima cosa messo in serio imbarazzo tutte le altre Cancellerie. Una Europa che si svegli dal torpore e prenda una posizione unica, forte e decisa per mettere fine a tutto questo, che riconosca lo Stato Palestinese, che applichi sanzioni sarebbe estremamente importante: la nostra responsabilità su quanto sta accadendo è enorme, almeno quanto enorme è la mole di crimini di cui ci stiamo rendendo complici. Questa speranza però non può non andare di pari passo con una emancipazione e maturazione nel nostro rapporto con gli Stati Uniti: perché sono ovviamente fondamentali per applicare pressione su Israele, e perché l’impressione che tengano un controllo molto stretto sulla nostra agibilità politica è molto forte».

E l’Italia? Dovremmo seguire l’esempio di Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia che hanno deciso di riconoscere lo Stato di Palestina?
«È un passo importante, ma ovviamente solo dimostrativo. Un giornalista ci ricordava come passando dalla Giordania ed entrando nella West Bank, sono i soldati israeliani a controllarti il passaporto e sono i soldati israeliani a raccogliere le tasse. Senza che i media ce ne dessero conto, lentamente la possibilità di uno Stato Palestinese è stata semplicemente schiacciata sotto il peso dei coloni e dell’Idf. Serve molto di più, serve che la pressione su Israele sia molto più alta, ma al momento non vedo come l’Italia con la Meloni – ma pure con il Pd – possa davvero fare passi in questo senso, considerato che perfino con le dichiarazioni pubbliche sono stati tutti estremamente abbottonati, almeno finché Biden non ha ammesso che le cose non andavano».

Finora però nemmeno le ordinanze della Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja sembrano sufficienti a fermare le ostilità.
«Qualcosa sta avvenendo a livello globale, e passa anche per l’Aja: c’è una coscienza sempre più diffusa che anche l’Occidente democratico deve sottoporsi al giudizio delle sue stesse regole. È un’occasione storica per riabilitarci».

Da un tribunale all’altro: se la Corte Penale Internazionale emettesse un mandato di arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu per crimini di guerra e contro l’umanità, come dovremmo comportarci?
«Se Netanyahu sarà ritenuto colpevole saremo messi di fronte ad un bivio storico, dove non saranno più concesse pelose mezze misure: o ci rimangiamo tutto ciò che abbiamo sempre sostenuto riguardo la nostra presunta superiore moralità basata sul rispetto delle regole, svelando la nostra ipocrisia e rivelando la nostra natura di dominatori tout-court, oppure ci schieriamo finalmente dalla parte giusta della storia, sperando che non sia troppo tardi».

La pace però non sembra in cima alle preoccupazioni di tutti i cittadini europei. Secondo l’ultima rilevazione di Eurobarometro e stando a un sondaggio di Arte – BVA Xsight, l’Ue è divisa tra un’Europa centrale e nord-orientale preoccupata principalmente per la guerra e gli Stati mediterranei e balcanici più interessati a investire nei servizi pubblici come la Sanità. Voi cosa proponete?
«C’è chi potrebbe sostenere che nel Mediterraneo siamo più lontani dal fronte dei Paesi dell’Europa centrale, ma la realtà è che siamo più lontani dal loro benessere e abbiamo pagato con lacrime e sangue i dettami di un’ideologia che ora si sta rivelando in tutto il suo fallimento. Abbiamo osservato a lungo chi ha gozzovigliato in questi decenni, combinando disastri e ora proponendosi come unici salvatori e non crediamo più alle loro bufale. Come già detto, però, le due priorità non sono in antitesi: per avere migliori servizi pubblici, sanità, salari, pensioni, tutela dell’ambiente, la via maestra passa per la pace».

Dalla “Pace” alla “Terra”: uno dei temi più cari agli elettori, soprattutto ai giovani in Italia, riguarda proprio la difesa dell’ambiente. Nell’ultima legislatura europea è stato lanciato il Green Deal: è sufficiente?
«Il Green Deal della Commissione è una scolorita, anemica versione di ciò di cui ci sarebbe stato bisogno, ed è caduto ugualmente sotto i colpi elettorali della destra che va da Macron fino a Lollobrigida. Quell’accordo semplicemente non seguiva i consigli della comunità scientifica internazionale, l’IPCC (Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, ndr). Inoltre, non considerava un altro aspetto fondamentale, anch’esso evidenziato nel rapporto IPCC: quello dell’equità climatica».

Voi cosa proponete?
«Qualsiasi Green Deal deve garantire una transizione equa e sostenibile nei confronti dei cittadini meno abbienti, considerando le implicazioni di qualsiasi accordo per il Sud del mondo. DiEM25 ha lanciato già nel 2016 il suo Green new Deal: il più dettagliato, pragmatico e allo stesso tempo audace piano di investimenti mai presentato da un partito europeo.  Un piano che certifichi una transizione ecologica vera ma soprattutto pagata dai ricchi e non dai cittadini. Un piano in grado di andare oltre la storica frattura rosso-verde sul lavoro, con la riconversione di migliaia di fabbriche per creare lavoro dignitoso, necessario e soprattutto ad impatto zero. Un piano in grado di abbattere i costi delle bollette riformulando il mercato dell’energia e impedendo alle aziende di fare maxi-profitti sulla nostra pelle».

In materia di occupazione e “Dignità” invece promettete un sostegno economico universale a chi resta senza impiego e di portare a 32 ore settimanali gli orari di lavoro in tutta Europa. Come si può superare le resistenze degli Stati nazionali in merito, soprattutto viste le differenze tra i Paesi del Nord e del Mediterraneo?
«Il welfare è quel capitolo dell’integrazione europea che doveva arrivare, era il prossimo, quello che mancava e però non è mai giunto. Proprio perché la libertà di capitali in assenza di una redistribuzione retributiva e di welfare garantiva quell’equilibrio sbilenco che ha fatto gola a tanti per tanto tempo. Anche i cosiddetti Paesi “frugali” però sanno da tempo che la festa sta per finire e sperano di poter prolungare ancora un po’ il gioco con l’economia di guerra. L’Europa non ha futuro se non si democratizza e non riequilibra la sua integrazione: entrambe le cose passano per un capitolo europeo di lotta alla povertà, di rete sociale, un rapporto fiduciario con i propri cittadini che deriva solo da istituzioni democratiche che rispondono ai loro bisogni. L’alternativa è una distopia Orwelliana».

Nel vostro programma, proponete di combattere “l’accentramento in poche mani e in pochi Paesi delle sorti dell’innovazione, dell’informazione e della cultura”. Come?
«Il progresso tecnologico ha un ruolo chiave per quello politico e sociale e l’Europa deve porre il benessere di tutti gli esseri umani al centro di queste innovazioni che possono avere un impatto trasformativo su scala globale. Il nostro pilastro tecnologico promuove un piano ambizioso per raggiungere la Sovranità Tecnologica: il diritto e la capacità dei cittadini e delle istituzioni democratiche di fare scelte autodeterminate riguardo alle tecnologie e alla loro innovazione. È chiaro da un lato che settori così strategici non possono essere semplicemente regolati dall’esterno e lasciati al libero mercato: questo ci ha portati di fatto ad un tecno-oligopolio, o un tecno-feudalesimo, come lo chiama Yanis Varoufakis, che ha lasciato le chiavi del progresso nelle mani di pochi miliardari di cui siamo a tutti gli effetti schiavi, senza però togliere a certi autocrati la possibilità di usarli a proprio vantaggio per il controllo censorio di attività politiche avverse».

L’AI Act appena varato in sede Ue è sufficiente per combattere la lotta alle fake news e regolare il settore dell’intelligenza artificiale?
«L’ultima proposta della Von der Leyen di un pre-bunking al posto del debunking puzza di Ministero della Verità lontano un miglio. La creazione poi di un nuovo capitolo, come per l’intelligenza artificiale, sarebbe un’occasione perfetta per inaugurare un sistema unico e coerente, invece di una legislazione che deve poi articolarsi in più di venti messe a terra diverse a livello nazionale. Ma perché le istituzioni si riapproprino dello spazio che spetta loro dobbiamo compiere il passo finale e creare per l’Unione europea un’infrastruttura democratica, trasparente e direttamente responsabile verso i propri cittadini».

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