Mario ‘O Merikano: così è nato l’asse di ferro tra Draghi e gli Usa
Gli studi al Mit di Boston, gli anni da manager in Goldman Sachs e alla Banca Mondiale di Washington, la Bce teutonica guidata sul modello della Federal Reserve e il filo diretto con la Casa Bianca: breve storia dell’americanismo di Mario Draghi
Boston, primi anni Settanta. La guerra in Vietnam è agli sgoccioli e il presidente degli Stati Uniti Nixon sta per dimettersi sull’onda dello scandalo Watergate. Nei corridoi del Mit – il Massachusetts Institute of Technology, tempio mondiale della ricerca accademica – si incrociano due giovani dottorandi italiani: «Piacere, Mario», «Piacere, Francesco». Uno viene da Roma, l’altro da Bergamo: diventeranno amici. Sono entrambi allievi dell’economista italo-americano Franco Modigliani, pioniere della finanza aziendale moderna e futuro premio Nobel. Probabilmente già immaginano la fulgida carriera che li attende. Di cognome fanno Draghi e Giavazzi e oggi, mezzo secolo dopo, sono ancora l’uno al fianco dell’altro, ma nelle stanze dei bottoni di palazzo Chigi: il primo è presidente del Consiglio, il secondo veste i panni del suo più stretto consigliere.
Come in quei primi anni Settanta, anche adesso c’è una guerra in corso ma stavolta – in Ucraina – siamo solo all’inizio, e il presidente degli Stati Uniti – Biden, appena eletto ma già in crisi di popolarità interna – mostra i muscoli al nemico russo. E Draghi – che nel frattempo è diventato Super Mario – è uno dei più fedeli alleati della Casa Bianca.
Al pari del francese Macron e del tedesco Scholz, ha subito risposto di sì alla richiesta americana di aumentare la spesa militare nazionale fino al 2 per cento del Pil. Ma a differenza degli altri due leader europei, il premier italiano non ha mai preso le distanze dai toni incendiari – «Putin macellaio», «genocidio russo» – che Biden ha usato contro il Cremlino.
Del resto, lo scorso 15 marzo, dopo la visita a palazzo Chigi di Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, è stato diffusa una nota in cui si diceva chiaro e tondo che «Italia e Usa intensificheranno i rapporti a tutti i livelli, alla luce degli eccellenti rapporti bilaterali». E qualche mese prima, a margine del G20 di Roma, era stato lo stesso Biden a complimentarsi con il capo del governo italiano per il suo «lavoro straordinario».
Dopo gli anni del dottorato al Mit di Boston, l’americanismo di Super Mario è stato ulteriormente forgiato a Washington, negli uffici della Banca Mondiale, dove il futuro premier è stato direttore esecutivo dal 1984 al 1990. Poi, tra il 2002 e il 2005, Draghi è stato vicepresidente del ramo europeo di Goldman Sachs, una delle più potenti banche d’affari a stelle e strisce. Non a caso, nel 2011 l’allora presidente statunitense Obama (il cui vice era un certo Joe Biden) vide di buon occhio la sua ascesa a governatore della Banca centrale europea. Bruno Tabacci, attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ama raccontare l’aneddoto secondo cui «quando c’era un problema difficile da affrontare, Obama diceva ai suoi collaboratori “Chiamate Mario”».
Se l’economista cresciuto fra i gesuiti del liceo Massimo di Roma era così apprezzato dall’altra parte dell’oceano Atlantico forse è anche perché, prima col «Whatever it takes» e poi col Quantitative Easing, aveva scalfito i tratti teutonici della Bce rendendola un po’ più simile alla Federal Reserve. Fed che, fra parentesi, in quegli stessi anni era guidata da Janet Yellen, oggi segretaria del Tesoro di Biden. E di certo il presidente degli Usa ha esultato la sera del 2 febbraio 2021, quando al Quirinale il presidente Mattarella ha indicato il nome di Draghi per guidare il nuovo governo dell’Italia. Anzi, non è da escludere che da Washington abbiano attivamente sponsorizzato la nomina dell’ex capo dell’Eurotower. Anche perché i rapporti con il premier precedente, Giuseppe Conte, non erano propriamente idilliaci. Nel novembre 2020, ufficializzata la vittoria di Biden alle presidenziali americane, Conte riuscì a mettersi in contatto con la Casa Bianca per le congratulazioni di rito solo dopo alcuni giorni di tentativi andati a vuoto.
Probabilmente lo staff del neo-eletto presidente democratico non gradiva il filo diretto che si era instaurato fra Trump e il leader italiano, goffamente chiamato «Giuseppi». E ancora meno erano piaciuti agli americani gli accordi commerciali stipulati dal primo governo di Conte con la Cina di Xi Jinping, avversario numero uno degli Usa sulla scena mondiale.
Con l’arrivo di Draghi alla presidenza del Consiglio, invece, la musica è decisamente cambiata. Tra aprile e novembre dell’anno scorso, Super Mario – sempre affiancato dal fido Giavazzi, ultrà del neoliberismo – ha esercitato per ben tre volte il veto del golden power per impedire ad aziende cinesi di mettere le mani su imprese italiane ritenute strategiche, dai semiconduttori all’alimentare. D’altro canto, invece, il Governo non ha battuto ciglio quando Fincantieri ha dovuto rinunciare a una commessa da 23 miliardi di euro dall’Australia a causa di un patto anglo-americano con Canberra. Non solo: come abbiamo più volte raccontato su TPI, per la creazione del Cloud che dovrà immagazzinare i dati della Pubblica Amministrazione – uno dei progetti più importanti del Pnrr – è stata scelta una cordata tricolore che si basa però sulle tecnologie di giganti della Silicon Valley come Google, Microsoft e Oracle. Un esito che contraddice la direzione di marcia, suggerita dalla Commissione Ue, per una «sovranità digitale europea». Per non dire dei rigassificatori che il Governo italiano intende allestire in fretta in vista dell’abbandono delle forniture russe: quegli impianti serviranno a riportare allo stato gassoso il metano liquefatto in arrivo (anche) dagli Stati Uniti. E chi se ne frega se è più costoso e inquinante di quello che ancora oggi ci vende Putin: se profuma d’America, a Mario piacerà di sicuro.
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