Così Draghi “il migliore” ha gettato il Paese nel caos tentando di “scappare” al Quirinale
Riforme bloccate, Pnrr al rallentatore, crisi energetica, sanità allo stremo. E la guerra per il Colle che ha gettato il Paese nel caos
Missione fallita, promesse non mantenute, governo indebolito. Come in tutte le storie appassionate e complesse, come in ogni thriller avvincente, nella vicenda da libro-giallo del governo Draghi c’è un prima e un dopo, un punto di svolta, un momento in cui l’impresa è abortita, senza che nessuno dei protagonisti (e degli osservatori) se ne rendesse apparentemente conto.
Tutto inizia in estate, con continue indiscrezioni sul tema del governo, della legislatura e delle ambizione quirinalizie dell’ex governatore della Bce. Ma il vero passaggio di svolta, il momento di non ritorno, per il governo Draghi, arriva, come un fulmine a ciel sereno il 2 novembre del 2021. È quello, infatti, il giorno in cui uno degli uomini più vicini a Mario Draghi, il ministro Giancarlo Giorgetti, si lascia andare (mentre è intervistato da Bruno Vespa) a una confidenza di cui, probabilmente, in quelle ore non prevede le conseguenze.
La frase (contenuta in un libro che in quei giorni fra l’altro non è ancora uscito) ovviamente viene anticipata dal conduttore di Porta a Porta alle agenzie, e produce un putiferio: «Draghi al Colle? Perché no? Da lì – spiega Giorgetti – guiderebbe il convoglio, sarebbe un semipresidenzialismo de facto». Riletta oggi, con il senno di poi, si capisce come quella frase contenesse fin da allora due notizie e due problemi per il governo e per il suo capo. Prima notizia e primo problema: Draghi e il suo entourage prendevano seriamente in considerazione l’ipotesi di una ascesa al Colle, e lo stavano di fatto rivelando al mondo (non ci fu nessuna smentita alle anticipazioni di Vespa, né di Giorgetti né del presidente del Consiglio) sia pure attraverso un ventriloquo.
Seconda notizia e secondo problema: la prima linea del governo avvertiva e si era posta fin da allora il problema del venir meno delle garanzie e dei contrappesi che questa successione – mai verificatasi prima nella storia repubblicana – produceva nell’architettura costituzionale italiana (criticità che spiega bene il costituzionalista Michele Ainis a pagina 16 di questo giornale). In quel colloquio, forse con eccessiva leggerezza, Giorgetti individuava la soluzione nell’idea del «presidenzialismo de facto». Ovvero di una riscrittura empirica della nostra Carta costituzionale senza nessun voto parlamentare, senza riforme né referendum. Siccome non c’è tempo, non si può perdere tempo: l’orologio biologico della legislatura diventa un ironico strumento di logoramento implicito della maggioranza.
A Palazzo Chigi, secondo le ipotesi di Giorgetti, si sarebbe insediato «un governo del presidente», con un premier designato e (tele)guidato direttamente dal Colle, e al suo fianco avrebbe operato un esecutivo-fotocopia, con gli stessi ministri designati da Draghi…
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