L’assembramento dei migliori nel nome di Draghi non è quello che serve all’Italia
Sta riscuotendo notevole successo la proposta lanciata da Renato Brunetta sulle pagine di Repubblica di una “alleanza tra liberali, popolari e socialisti” a sostegno di Mario Draghi. Si tratta, nelle intenzioni del ministro per la Pubblica Amministrazione, di un prolungamento dell’attuale maggioranza di governo anche dopo le elezioni del 2023. Una maggioranza che da emergenziale diventerebbe strutturale, mondata però dal sovranismo leghista poiché in grado, finalmente, di riunire tutte le forze moderate del Paese. Garante del progetto, nell’ottica di Brunetta, sarebbe proprio Draghi, l’unico in grado di sintetizzare le differenze storiche, culturali e ideologiche tra i partiti in nome della stabilità e del pragmatismo.
Il progetto di assembramento moderato ha incassato molti consensi: persino Goffedo Bettini, tra i più autorevoli dirigenti del Pd, ha affermato che “l’ispirazione di Brunetta è giusta, e anche coraggiosa”. Il campo largo di cui da tempo parla Enrico Letta, in cui il Pd sarebbe baricentro di una coalizione democratica aperta sia al Movimento Cinque Stelle che al centrismo, nella versione brunettiana vedrebbe però decisamente modificati i suoi connotati.
La maxi-coalizione, infatti, allargandosi anche a Forza Italia, smarrirebbe ogni tipo di connotazione politica: il leader non sarebbe più lo stesso Letta, bensì Draghi. La politica prolungherebbe così il suo stato di sostanziale commissariamento, vedendo sparire le distinzioni tra destra e sinistra, in favore di una contrapposizione tra sovranisti e moderati.
Che l’avvento di Draghi abbia in parte disinnescato la forza d’urto del populismo sovranista può essere vero: il centrodestra di Salvini e Meloni ha incassato una sonora sconfitta alle elezioni amministrative, il consenso del premier nel Paese continua ad essere elevato, e la posizione ibrida, di lotta e di governo, sta provocando parecchi problemi a Salvini, con un bel pezzo del suo partito che vorrebbe approfittare dell’attuale stagione politica per far trasformare anche la Lega in un partito moderato.
Ci sono però numerose controprove: Fratelli d’Italia resta il primo partito per consensi, con Lega e Pd che si giocano la seconda piazza. Il voto amministrativo (comunque limitato ad alcune grandi città e capoluoghi di provincia) è stato segnato da un’astensione diffusa e preoccupante. Come avevamo già evidenziato in questo articolo, inoltre, scambiare l’attuale fiducia di cui gode Draghi nel Paese come il segno della definitiva riscossa di élite politiche prima bistrattate sarebbe una grossolana illusione. Così come lo sarebbe pensare che il consenso di cui gode attualmente Draghi nel Paese possa tradursi automaticamente in un bagno di voti per una coalizione post-ideologica alle prossime elezioni politiche. Una coalizione tutta incentrata sulla figura dell’attuale premier, in cui sarebbe difficile scorgere la differenza tra Brunetta e Calenda, tra Conte e Renzi, persino tra Letta e Berlusconi. La famosa “notte in cui tutte le vacche sono nere”.
Siamo sicuri che il bisogno di stabilità che ha fatto seguito all’emergenza pandemica implichi un desiderio diffuso, nel Paese, di cancellare le differenze culturali e ideali tra destra e sinistra? Siamo sicuri, inoltre, che sia opportuno per il centrosinistra consegnarsi all’attuale premier come nume tutelare, rischiando così di smarrire un’identità chiara, riconoscibile, traducibile in una proposta politica che non sia percepita come mera applicazione tecnica di soluzioni calate dall’alto?
Goffredo Bettini, nel mostrare apprezzamento per la proposta di Brunetta, ha utilizzato come scudo il proporzionale: una legge elettorale con questo impianto permetterebbe infatti a renziani, calendiani, berlusconiani, Pd, 5 Stelle, di non presentarsi alle elezioni tutti insieme, per poi mettersi invece insieme dopo, una volta disinnescato il pericolo sovranista. Ammesso che ciò possa realmente avvenire, resta però il problema di fondo: un’alleanza post-elettorale di questo genere sarebbe (forse) possibile solo con Draghi premier in una maggioranza in cui tutti i partiti, nessuno escluso, sarebbero junior partner dell’unica figura in grado di annullare le differenze e tenere insieme tutto.
Ma le differenze, verrebbe da dire, sono il sale della politica, intesa come rappresentanza di bisogni sociali certamente sintetizzabili, ma mai del tutto sovrapponibili. La politica è certamente buona amministrazione, ma è anche “prendere parte”, capacità di fare, quando occorre, scelte anche radicali che non possono accontentare partiti storicamente e culturalmente differenti per idee e visione della società (quanto sta accadendo in queste ore sul Ddl Zan, del resto, è lì a dimostrarlo). Il commissariamento permanente della politica, nonché l’idea che ci si possa affidare in maniera continuativa a figure tecniche capaci di saldare un campo moderato che la politica, da sola, non riesce a costruire, appaiono entrambe derive pericolose.
C’è anche un altro elemento da considerare: alle scorse elezioni, il campo riformista e moderato venne travolto da proposte radicali ma in grado di parlare a tutti, come il reddito di cittadinanza, che intercettavano un bisogno di protezione sociale altrimenti inascoltato. Nel post-pandemia, nonostante il miglioramento di alcuni indicatori economici, la crisi dei salari e dell’occupazione è destinata ad aggravarsi. Pensare che le tensioni sociali potranno essere annullate grazie alla figura di Draghi appare piuttosto ingenuo. Ci sarà, come avvenne dopo la crisi economica del 2008, una nuova richiesta di soluzioni forti, di una visione per certi versi anche “radicale” del futuro, di proposte in grado di migliorare in tempi non troppo lunghi la condizione economica dei tantissimi che si trovano e si troveranno in affanno, ulteriormente impoveriti dagli effetti della pandemia. Difficilmente ci si potrà accontentare di una gestione (magari anche virtuosa) dell’esistente.
Viene quindi da chiedersi se, in una campagna elettorale già orientata all’assembramento moderato post-voto, possano risultare più di impatto le proposte di una coalizione in vitro priva di una precisa identità politica, o quelle semplicistiche, grossolane, estreme, ma più definite proprio dal punto di vista identitario del populismo sovranista di Salvini e Meloni. Viene da chiedersi, cioè, se per contrastare quel populismo sovranista non sia meglio presentarsi con proposte praticabili ma anch’esse forti, all’interno di un campo meglio definito politicamente, senza voler tenere insieme chi ha idee differenti sperando in una successiva sintesi (da parte di Draghi) che però gli elettori farebbero fatica a tradurre in una chiara idea di società, di futuro, di ripresa post-pandemica.
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