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Home » Politica

Sandro Ruotolo a TPI: “Rai3 non esiste più, la destra si sta mangiando la tv di Stato”

Immagine di copertina
Credit: Facebook

“La destra sta rompendo le regole per occupare militarmente la tv di Stato. Ai miei tempi c’era il pluralismo. Oggi invece decapitano chiunque non la pensi come loro. Rai3 non esiste più. Io e Schlein contro De Luca? La nostra avversaria si chiama Meloni. Ma il Pd non può essere al servizio dei cacicchi”

Sandro, cosa succede a viale Mazzini?
«Semplice. La destra sta occupando militarmente la Rai».

Come?
«Inventando un decreto legge per far fuori il direttore del San Carlo e dare il suo posto a Fuortes. Orrore ad personam».

E poi?
«Via Annunziata, Gramellin, Berlinguer, Fazio… Via tutti».

Loro dicono: anche la “tua” Rai era lottizzata.
«Io non faccio l’elogio acritico del passato. Ma c’era pluralismo e la gente lo vedeva». 

Mentre ora?
«Sono passati come carri armati, decapitando chiunque non la pensasse come loro. Rai3 non esiste più. Esistono capi del Day time, del Prime time e dell’approfondimento giornalistico…». 

Tradotto?
«Con tre poltrone hanno preso tutto il cocuzzaro!».

Sandro Ruotolo, 68 anni, volto cardine del nuovo Pd. Cugino di Silvia, vittima innocente della Camorra nel 1997, sotto scorta dal 2015 perché un boss della camorra lo «vuole squartare vivo». Protagonista della stagione santoriana da “Samarcanda” a “Servizio Pubblico”. Grande nemico – anche se lui nega il fatto personale – di Vincenzo De Luca. Per la prima volta spiega senza filtri cosa sta accadendo nel Pd nella guerra in Campania contro la Schlein. 

Da dove vieni?
«Mio padre era musicista. È stato anche Primo violino del San Carlo». 

Tu hai fatto il giornalista.
«Sono cresciuto nella musica. Papà insegnava al Conservatorio di San Pietro a Maiella: quasi tutti i giorni avevamo in casa ragazzi a lezione. Era bellissimo essere sempre circondato di voci e suoni».

Però questo mondo finisce tutto insieme.
«Mio padre muore d’infarto quando io e il mio gemello, Guido, abbiamo 18 anni». 

L’anno terribile della tua vita, il 1973.
«Pensa: è anche l’anno del colera a Napoli, del golpe in Cile, della contestazione – buona – alla mostra di Venezia». 

E tu?
«Io mi diplomo al liceo scientifico ed entro nella vita. Eravamo cinque fratelli, ma nella sfortuna del lutto trovo la mia strada. Entro a Il Manifesto a 18 anni e mezzo. Prima a Napoli, dove mi avvicino al gruppo degli eretici del Pci. Poi dopo le politiche del 1972, che avrebbero dovuto  portare Pietro Valpreda a Montecitorio, ci trasferiamo a Roma. E io inizio a fare lavoro politico nel collettivo operaio del Manifesto della Tiburtina.». 

Ma tu eri un borghese!
(Ride). «Vero. Ma avevo scelto di stare dalla parte degli operai». 

Le prime persone con cui fai amicizia a Il Manifesto?
«Mario Catalano, Attilio e Lucia Wanderling, che diventerà più nota come Lucia Annunziata. Allora aveva un sodalizio fortissimo con il marito, al punto di lasciare la Campania». 

E tu?
«Ci inventiamo un giornalino operaio di quartiere, con il mio amico Leonardo Rapone. Finisce tra le mani dei compagni di via Tomacelli, dove aveva sede Il Manifesto”. Mi chiama Ritanna Armeni, caposervizio del sindacale. E dopo pochi mesi, visto che Corradino Mineo va a Torino per stare vicino alla Fiat, si libera un posto. Prendono me». 

La prima maestra?
«Luciana Castellina, che soprintendeva alle nostre pagine. Un mito». 

Il primo salto di carriera?
«Nel 1976 Rossana (Rossanda, ndr) mi chiede di andare a Milano per lavorare davanti all’Alfa Romeo di Arese». 

La Milano insanguinata dagli anni di piombo.
«Dalle cronache operaie passo al terrorismo, a raccontare l’omicidio Custrà». 

Il giovane agente ucciso nel giorno in cui sparano le P38. Non hai avuto indulgenza?
«Al contrario. Scrivemmo che era una vigliaccata. Il Manifesto era vicino al Pci, contro gli estremismi». 

E tu?
«Io ero ancora più “pasoliniano”: per me l’agente era vittima di un massimalismo estremista armato». 

E poi?
«Lascio Milano e torno a Napoli. Con Attilio Wanderling apriamo la redazione locale de Il Manifesto». 

Clima più disteso?
«Macché! Il movimento ‘77 è nel suo momento più alto: campagne per l’autoriduzione delle bollette, sparatorie in centro, la morte dello studente Francesco Lorusso a Bologna». 

E tu?
«Vado controcorrente. L’estremismo mi preoccupa. Nel 1979 lascio Il Manifesto e mi avvicino al Pci. Prendo la tessera nel 1980, dopo la svolta di Salerno con cui Berlinguer mette fine al compromesso storico». 

Lasci anche il quotidiano.
«Massimo Caprara doveva fare un giornale. Faccio il colloquio, va bene, mi prendono: scrivo un bel pezzo di presentazione per Prima Comunicazione». 

Un colpaccio?
«Macchè! Non piace all’editore, mi cacciano. Ma è la mia fortuna, perché ottengo la qualifica di “disoccupato”. Grazie a quella entro in Rai». 

Primo incarico?
«Cronaca, da Napoli. Devo tutto alla radio. Angelo Elefante, un vecchio tecnico che seguiva Sergio Zavoli, si innamora della mia voce e mi fa esercitare per ore leggendo articoli davanti al microfono. Mi insegna a tagliare le interviste». 

Quale era il giro?
«La mia generazione è quella dei cronisti come Rocco Di Blasi, Marco De Marco, Peppe D’Avanzo, Federico Geremicca, Vito Faenza, Antonio Polito. E poi c’erano gli inviati del Corriere: Marzio Breda, Adriano Baglivo. Che anni…». 

Amici?
«Pensa che portai  mia moglie a partorire il nostro primo figlio con la macchina di Antonio Polito». 

Una grande palestra?
«Sì. Perché, a differenza della generazione di Mani Pulite, noi la guerra di Camorra la raccontavamo sporcandoci le scarpe. Da Ottaviano, dove c’era il cadavere del criminologo Semerari con la testa mozzata sulla soglia del cimitero, alle stragi del casertano o del napoletano. Camminavano tra i cadaveri». 

Altri casi?
«Nel 1982, l’assessore Dc Raffaele Delcogliano ucciso dalle Br».

Cosa è importante di quel periodo?
«Il salto evolutivo del racconto televisivo. A quel tempo i giornalisti facevano il “tal quale”». 

Cioè?
«Pezzo scritto in redazione e montato con immagini sopra». 

E invece?
«Io scrivo il pezzo per i tg in montaggio, guardando le immagini. C’è Joe Marrazzo… Per noi cronisti è un mito perché sporca il racconto con la sua voce». 

Poi la lezione di Marrazzo viene superata.
«Aggiungi a tutto questo Michele Santoro e il fatto che i pezzi nascono in strada e si scrivono al montaggio: è la ricetta di Samarcanda». 

Esempio?
«Palma di Montechiaro. Giro un’inchiesta sulla faida: quando uccidevano uno, già si sapeva a chi sparavano dopo». 

E Santoro?
«Il colpo di genio che fa esplodere il mio pezzo, in cui avevo immagini pazzesche, è che lui mi costruisce la scaletta del mio avvicinamento alla notizia». 

Un film.
«La costruzione drammatica era scandita in tre atti, come un dramma». 

Chi c’era della futura banda?
«Tanti. Riccardo Iacona e Alessandro Gaeta, Silvestro Montanaro e poi Corrado Formigli. E Bianca Berlinguer, Natalia Augias e tanti altri». 

Tu fai anche altro.
«All’inizio di Samarcanda sì. Mando i pezzi dalla Campania e contemporaneamente lavoro per tg e rubriche». 

E poi?
«Rifiuto la condizione delle 19.45 del Tg2». 

Occasione bruciata?
«No, pensa. Riperdo il treno dei desideri. Cambia il direttore ed Enrico Mentana, vicedirettore del Tg2, mi chiama a Roma: “Vuoi fare l’inviato di cronaca? Giuro, non ti faccio fare Marche”. Ghirelli mi fa, e pensavo sfottesse: “Voi diventerete direttore”. Divento vice». 

Diventi l’uomo della diretta dalle piazze e delle inchieste “pericolose”.
«Per caso». 

Cioè?
«Mi chiama Michele, io stavo ancora alla Rai di Napoli, e mi fa: “Sandro, vai a Taurianova e fai la diretta dal paese di Ciccio Mazzetta”. C’era gente che urlava, io impassibile con le cuffie in testa». 

Era nato un brand. Quando hai capito che avevate sfondato?
«Prima con la gente che ci applaudiva in strada. Poi il venerdì mattina, quando al bar o sul tram si parlava della puntata della sera precedente. Gli ascolti erano pazzeschi. Infine ci imponiamo quando andiamo anche contro Sanremo». 

Addirittura.
«Noi in diretta dal Sulcis con Iacona, Bianca nella cella, mille metri sotto terra, con i minatori carichi di dinamite. C’era uno zoccolo duro e si alternavano giovani come Tiziana Panella, David Sassoli, di cui ricordo un viaggio insieme verso Reggio Calabria. E poi ovviamente “Mammoscia”». 

Chi?
«Mannoni! Ma lui non si incazzava per il soprannome. Forse non ha mai saputo di averlo». 

Finisce “Samarcanda” inizia “il Rosso e nero”.
«Ci sono la politica, il Berlusconismo, Mani pulite, le grandi inchieste». 

Tipo?
«Gelli! Ricordo una diretta con De Lutiis da Willa Wanda, sempre più vicini al muro, finché… Non veniamo fracicati con la pompa, ovviamente in diretta». 

Grande spettacolo.
«Figl’ e zoccola». 

Poi “il Raggio verde”, poi a Mediaset con “Moby Dick”.
«Che finisce con la puntata più bella. Michele in diretta sul ponte di Belgrado. Io ero andato in un giorno e mezzo a Novi Sad. Iacona e Formigli non so dove.. Di riserva, se cadeva la linea, c’era un certo Mentana. Posso dirti un aneddoto? Andai a montare il pezzo con Alessandro Renna in una tv serba. Una settimana dopo, quella redazione fu bombardata e morirono colleghi che probabilmente avevo conosciuto». 

Poi gli anni delle olgettine con “Rai per una notte” e “Servizio pubblico”.
«Rischiammo più volte la chiusura. Ricordo una sera con la D’Addario ospite… Unghie e denti per andare in onda». 

Ma rompi con Santoro: perché?
«Era finita la spinta propulsiva… Michele aveva deciso di chiudere quel format. Oggi capisco: si era stancato di quel tipo di programma. Voleva fare altro. Io ero già sotto scorta, in pensione, potevo sopravvivere. Ma gli altri?».

Ti reinventi: De Magistris ti fa presidente del comitato di inchiesta sulla Camorra del Comune di Napoli.
«Lo faccio andando nei quartieri, immergendomi nella società. Poi mi chiama Fanpage.it e costruisco un mio format di 15 minuti. Mi reinvento ancora una volta, con una nuova lingua. Cambio il mio pubblico: unisco la rete, i contenuti, la lingua breve del web». 

Quando capisci che funziona?
«Quando leggo che un mio pezzo ha 5 milioni di visualizzazioni!». 

Rinunci alla tv.
«No. Anzi, ho la fortuna di lavorare nella rete. Ti rendi conto? Immettere contenuti nel regno delle fake news?». 

Hai rotto con Santoro per questo?
«Per cosa? Lui aveva deciso di chiudere il programma perché non voleva farlo più». 

Ma non vi parlate più.
(Pausa, silenzio). «Beh, io ho spostato tutto il mio impegno civile e politico a Napoli, lui vive a Roma. Le strade si sono divise». 

Ed Elly Schlein?
«È una battaglia bellissima». 

Eri già senatore quando arriva lei?
«No. La conosco proprio così. Nel febbraio 2020 vengo candidato al Senato, alle suppletive». 

Metti insieme il centrosinistra.
«Da Italia Viva a De Magistris: vinco con il 48%. Schlein viene a sostenermi. Non ci conoscevamo, o meglio lei conosceva me come giornalista antimafia e io conoscevo lei per quel bellissimo numero “televisivo” con Matteo Salvini. Poi torna a sostenermi alle ultime politiche, quelle del 25 settembre 2022. Viene a Torre Annunziata, ma non vengo rieletto in parlamento». 

Diventi portavoce della mozione Schlein in Campania. Ora sei arcinemico di De Luca.
«Rivendico la nostra battaglia contro “i cacicchi” e i “figli di”, per ridare dignità alla politica. È in corso una guerra civile». 

Non esagerare.
«L’8 febbraio avevo previsto la vittoria di Elly. Avevo capito che c’era stata la riconnessione sentimentale con un popolo deluso, che non votava più». 

Entri in segreteria.
«Prima mi iscrivo al Pd, poi vengo eletto in Direzione all’assemblea nazionale. A proposito, la sera prima, mentre sto seguendo in tv la partita del Napoli, momento sacrale, mi comunicano che sarei dovuto anche intervenire alla Nuvola». 

E poi che succede?
«Elly mi chiama: “Io ti faccio responsabile Informazione e Cultura, Culture e Memoria”. Per farti capire, in un mese: prendo la tessera del Pd, entro in direzione e poi in segreteria». 

Adesso siete in guerra con De Luca, e tu mi dirai che vince lei.
«No: lui è un osso duro. Se Elly diventa la decima segretaria del vecchio Pd, ha già perso. Se riesce a essere la prima segretaria del nuovo Pd, ha vinto. Sta facendo questo». 

Traduciamo: andate a destra o a sinistra?
«A riprendere 6 milioni di voti: quelli che non votano più». 

Su cosa?
«Sui temi sociali e sull’identità». 

Quale identità? Diritti Lgbt?
«La politica al servizio della comunità e non la comunità al servizio del cacicco di turno». 

Tu ed Elly odiate De Luca.
«No. La mia avversaria si chiama Giorgia Meloni. Non è il presidente della Regione Campania il mio grande nemico, ma il partito non può essere a disposizione degli amministratori». 

Non volete il suo terzo mandato.
«Attento: non riguarda solo il presidente della Campania. Le Regioni gestiscono tantissimi soldi. Se gli amministratori fondano dinastie di potere, la società civile scappa». 

Quindi gli state ponendo un veto?
«Pongo una questione etica: non si cede la casa pubblica – a vita – a un signore». 

Fammi un esempio.
«Un sindaco della penisola sorrentina ha fatto candidare un suo assessore in Italia Viva. Così i partiti diventano taxi». 

E che gli dici?
«Nulla. Va mandato via». 

Argomento forte: senza De Luca si perde.
«Argomento falso». 

Hai segato Filippo Facci con la tua battaglia sul suo articolo contro la ragazza che ha denunciato La Russa jr.
«Non c’è spazio in Rai per le esternazioni sessiste e razziste». 

La governance in Rai è figlia di Matteo Renzi.
«Va cambiata subito. È uno schifo. L’esecutivo nomina i vertici della Rai: è un ossimoro. Che fine fa l’informazione cane da guardia della democrazia? E ci vuole anche la legge sul conflitto d’interesse. Ricorda che Berlusconi non ha vinto per Emilio Fede a Rete4, ma per la Zanicchi, Ambra, Sandra e Raimondo…». 

E ora cosa temi?
«La narrazione degli sconfitti che riscrivono la storia, le fiction, il direttore di Raisat Petrecca che manda in diretta il comizio della destra contro la par condicio. La destra in Rai rompe le regole per mangiarsi l’industria culturale e informativa più grande del Paese. Ti pare poco?».

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