Il decisionismo di Mario Draghi è il principale ostacolo per la sua corsa al Colle
Dicono che sia uno dei veri motivi (anzi, il motivo più importante di tutti) per il quale una buona fetta dell’establishment nazionale non vuole vedere assolutamente Mario Draghi seduto al Quirinale: il suo decisionismo.
“Ascolta tutti con la massima gentilezza ma poi decide solo e soltanto lui nella più totale autonomia” spiega chi lo conosce bene. Anche i partiti, leader compresi, molto spesso vengono tenuti fuori dalla porta e vengono a sapere le decisioni prese a cose fatte oppure a ridosso dell’ufficializzazione.
D’altra parte basta vedere quello che sta accadendo con le nomine delle principali partecipate, spiegano le medesime fonti. Anche ai suoi fedelissimi, Garofoli e Funiciello in primis, lascia le briciole ovvero sentire i partititi per le posizioni di rincalzo, al massimo per qualche posizione in Cda.
Sempre comunque di Palazzo Chigi si tratta visto che parliamo del sottosegretario alla presidenza del Consiglio e del suo capo di gabinetto, ovvero braccio destro e sinistro del premier. Insomma, niente estenuanti trattative con le segreterie politiche dei partiti, nessuna riunione con le delegazioni della maggioranza di governo, niente caminetti segreti o riservati: è solo Draghi a decidere le cose che contano (in questo caso le nomine delle partecipate ma in Consiglio dei Ministri c’è chi lamenta uno scarso coinvolgimento anche in molte altre scelte importanti del governo tanto che, raccontano fonti molto bene informate, si dice che alcuni ministri non abbiano nemmeno il suo numero di telefono personale).
Anche l’interlocuzione con il Mef diventa meramente “tecnica”: Franco e Rivera, rispettivamente ministro e direttore generale, dovranno semplicemente limitarsi a mettere nero su bianco, preparare le carte, sulla base di quello che il presidente del Consiglio ha già deciso.
Insomma, Mario Draghi come il “Re sole” cui tutto ruota intorno. Ecco perché sono in molti in cuor loro, sia tra i settori che contano dell’establishment nazionale sia tra le forze della della maggioranza di governo, a sperare che non approdi mai al Quirinale: “È già impossibile tentare di ‘condizionarlo’ ora, figurarsi se dovesse salire Colle” il refrain. Già, perché tra Palazzo Chigi e Quirinale c’è pur sempre una differenza e non è di poco conto: il Presidente del Consiglio ha comunque bisogno del voto di fiducia in Parlamento e che i provvedimenti governativi vengano approvati dalle due Camere, cioè dai partiti stessi.
Quindi ci può sempre essere spazio per la mediazione in Cdm (tanto o poco che sia) o per mandarlo a casa se i partiti decidessero per questa soluzione. Mentre l’inquilino del Colle è per definizione libero da qualsiasi condizionamento o pressione da parte della politica, resta in carica sette anni senza possibilità di rispedirlo a casa anzitempo e può far sentire la propria voce praticamente su tutte le questioni “chiave” del paese: “Da Palazzo Chigi si governa ma è dal Quirinale che si comanda…”, avverte chi di queste cose se ne intende.