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Home » Politica

Tutto su Damiano Tommasi: l’intervista al nuovo sindaco di Verona

Immagine di copertina
credit: ansa foto

"Probabilmente i miei avversari mi avevano sottovalutato. Dicevano che non avevo esperienza in politica, ma poi hanno copiato il mio programma": parla a TPI il neo sindaco del centrosinistra a Verona

Lunedì scorso, a Verona, subito dopo lo scrutinio che gli ha regalato un sorprendente 40% (e la prima posizione in vista del ballottaggio poi vinto dall’ex calciatore n.d.r.) contro due vecchie volpi della politica come Flavio Tosi e Federico Sboarina, il telefono di Damiano Tommasi è impazzito. Richieste di interviste da ogni genere di testata (quotidiani, televisioni, periodici sportivi) e da diverse nazioni (dalla Spagna alla Cina, due Paesi dove l’ex centrocampista ha giocato). Il giorno dopo il cognome del candidato sindaco era per ore la parola più discussa su Twitter. Ma Tommasi ha ragione quando dice, con una punta di soddisfazione, che i suoi due sfidanti lo hanno sottovalutato. Invece, il giorno stesso in cui si è presentato come candidato “civico” in una coalizione di centrosinistra, per aiutarlo nella sua campagna elettorale, nella sede del suo comitato si sono presentati centinaia di volontari di ogni tipo, dai tifosi ai boy scout, molti di loro lontanissimi da ogni esperienza politica. Invece lui, ex giocatore di Verona e Roma, ex nazionale azzurro, ex segretario dell’Associazione Calciatori, faccia d’angelo e cervello fino («Ho sei figli e una sola moglie», dice con ironia) si diverte a ostentare un umore zen: «Dobbiamo ancora finire il lavoro che abbiamo iniziato».

Damiano Tommasi, è preoccupato per il secondo turno elettorale che l’attende?

«Io? Non sono mai stato così sereno».

Cosa si prova a passare in un solo giorno, dopo uno scrutinio, dal ruolo di outsider sottovalutato a simbolo vincente?

(Ride). «Tutto dipende da cosa si intende per “simbolo”».

Che tutti i giornali, per esempio, abbiano indicato il suo risultato a Verona come la vera «sorpresa» di tutte le amministrative.

«E quale sarebbe la sorpresa?».

Magari il fatto di arrivare primo davanti a un sindaco che ha guidato per dieci anni la sua città, e prima di un altro sindaco, che oggi è ancora in carica?

«Posso essere sincero con lei? Io non mi sono sorpreso di questo risultato».

Non la stupisce arrivare davanti a entrambi i candidati di centrodestra in una città che il centrodestra governa da trent’anni?

(Ride di nuovo). «Sono rimasti sorpresi loro, casomai, perché probabilmente mi avevano sottovalutato».

Perché lei invece aveva previsto questo risultato prima del voto?

«Io sapevo che era un risultato possibile. Il che, tuttavia, è molto diverso dall’ostentare certezze».

Che differenza c’è?

«In tutta la mia vita, anche prima del calcio, ho imparato che ci sono due regole molto importanti da capire, quando si gioca una partita».

La prima?

«Non sottovalutare mai nessun avversario e nessuno dei problemi che si affrontano».

E la seconda?

«Avere sempre la percezione del risultato massimo che puoi realmente ottenere».

E adesso c’è il ballottaggio per la carica di sindaco: che «percezione» ha dei rapporti di forza del secondo turno?

«Le elezioni, in questo, sono esattamente come le partite di calcio: si giocano in due tempi e fino all’ultimo minuto. Manca ancora un pezzo, ma ci arriveremo».

Se vince festeggerà come ha fatto per lo scudetto della Roma del 2001?

«È già tutto programmato. Me ne vado sullo Stelvio, alla cima Coppi: ovviamente in bicicletta».

Tommasi, cosa la colpisce di più dopo aver studiato i dati del primo turno?

«Che a Verona si sia registrato il risultato elettorale più basso di un sindaco uscente. Fossi nei suoi panni non sarei molto soddisfatto».

Questo sindaco, però, oggi è il suo sfidante. E dice di lei: «Tommasi è il cavallo di Troia della sinistra».

«Bene».

Come bene?

«Se devono ridursi a parlare male di te, senza entrare nel merito delle tue proposte, significa che non hanno idee su come affrontare la sfida».

Ma da che storia arriva Damiano Tommasi?

«Lo sa che i miei due nonni maschi erano entrambi falegnami?».

Me lo dice perché questo ha contato nella sua formazione?

«Molto. Uno non ho fatto in tempo a conoscerlo, ma ha lasciato un segno profondo nelle persone che amo».

I suoi avversari, però, ricordano sempre che lei non ha esperienza della macchina amministrativa.

«Non sono un tuttologo, e non devo nemmeno diventarlo. Chi dirige deve scegliere le direttrici di fondo e i progetti, e poi deve saper trovare le migliori competenze per realizzarli. Sono stato il primo a presentare un programma elettorale, e mi sono tolto la soddisfazione di vedere che dopo due mesi gli altri candidati erano andati a saccheggiare le mie proposte per copiarle: evidentemente non erano così malvagie».

Però quando le dicono che non ha esperienza di governo questo la fa arrabbiare, confessi.

«Io non mi arrabbio mai. Ma considero queste battute come il termometro del loro “sentiment”: parlare male dell’avversario sperando di fermarlo così».

Quando le chiedono che lavoro fa, lei non risponde «ex giocatore», ma «dirigente».

«È la verità. Non posso essere «ex» perché non ho mai smesso di giocare. Al massimo sono un “ex professionista”. Sui campetti ci vado ancora».

Non l’ha sorpresa che Romano Prodi abbia detto di lei «Non lo conosco come calciatore, ma lo apprezzo come ex sindacalista»?

«Mi stupisce scoprire che uno come Prodi dica parole di stima nei miei confronti. Ma in effetti sono un sindacalista, sia pure nel mondo del calcio».

Suo padre cosa faceva?

«Era un cavatore di marmo. Artigiano anche lui, dunque. Ho imparato nella mia famiglia la cosa più importante: saper fare le cose con quello che si ha a disposizione».

Mi dica il suo peggiore difetto.

«Sono testardo».

E il suo miglior pregio?

(Ride). «Sono testardo».

È una bella battuta a effetto. Ma non può darmi la stessa risposta per due domande diverse.

«E perché? È una grande verità. Nella vita, molto spesso, avere una forte determinazione ti fa saltare ogni ostacolo: ma talvolta ti può portare a sbattere contro un muro».

E a lei come è andata?

«Tante volte mi sono ritrovato a giocarmi le mie carte su questa linea sottile tra successo e suicidio. Ma se non si rischia non si può vincere».

In campo la chiamavano «il chierichetto» perché serviva palle al gran sacerdote del pallone, Francesco Totti?

«No, mi chiamavano così proprio perché letteralmente facevo il chierichetto. Lo facevo persino a Trigoria, quando si diceva messa lì».

Lei viene da una cultura cattolica progressista.

«Quella è stata la mia scuola. Non sul piano delle ideologie, ma su quello dei valori. Sono cresciuto in questo mondo, l’ambiente delle parrocchie e degli oratori. E lì ho imparato tante cose».

Ha fondato una scuola bilingue parificata, intitolandola a Don Milani.

«Eravamo partiti con un asilo, poi abbiamo corretto l’obiettivo in corsa alzando le nostre ambizioni. Però è vero che considero Don Milani un grande maestro di vita».

È in suo nome che ha rinunciato per sempre al porto d’armi?

«Sono stato il primo giocatore obiettore di coscienza della serie A».

Lei è riuscito a costruire una famiglia di sei figli.

«In realtà c’è riuscita mia moglie Chiara. Senza di lei non sarebbe esistita la mia carriera di calciatore e nemmeno la mia candidatura a sindaco. Chiara è il perno della mia vita».

Potrebbe diventare la sua first lady, ma le piace poco apparire.

«Ci siamo fidanzati a 15 anni sui banchi dell’istituto Lorenzo Calabrese, alle scuole superiori. Ci siamo sposati a 22 anni. Parliamoci chiaro: senza di lei io non vado da nessuna parte».

Lei da giocatore di serie A fece un gesto clamoroso. Dopo un grave infortunio al ginocchio chiese alla Roma di autoridursi uno stipendio milionario al salario choc di 1.500 euro al mese.

«Bisogna raccontare cosa era accaduto. Pochi o nessuno avevano avuto un infortunio grave come il mio. C’erano delle perplessità sulla mia effettiva capacità di recupero fisico, ma io volevo tornare ad ogni costo».

E così ha rinunciato ad un super stipendio da calciatore per darsene uno da postino, pur di continuare a giocare.

«Ed è stata una delle scelte migliori della mia vita. Perché poi, alla fine del campionato, abbiamo vinto in due».

Lei è riuscito a tornare titolare.

«E tutti insieme siamo arrivati a una finale di Coppa Italia che forse, se mi fossi tenuto il mio ingaggio garantito, non avrei mai potuto giocare».

Ci vede una lezione in questa storia?

«Sì, perché io ne ho tratto un insegnamento molto importante: nella vita bisogna avere il coraggio di mettersi e rimettersi sempre in gioco».

Voi Tommasi siete una famiglia così numerosa che – lei racconta – spesso faticate a ritrovarvi insieme.

«Quando i tuoi figli hanno dai 24 ai 9 anni di età riesci a riunire tutti quanti intorno a uno stesso tavolo solo per le feste comandate e per i compleanni. Questa esperienza mi insegna quanto è importante, in una città, il legame sociale delle famiglie».

Abita in campagna.

«È stato quello che ci ha salvato durante il lockdown. Altrimenti credo che in sei saremmo impazziti tutti».

Mi racconti Verona in tre immagini.

«Due corridoi su nove in Europa passano per la nostra città. È un’opportunità enorme. Ma se non sai che strada vuoi fare, quella opportunità non la sfrutti».

E poi?

«La nostra città oggi ha più mezzi che fini: siamo di fronte al dilemma di tante altre città, bellissime, che non sanno bene cosa fare della loro ricchezza».

Lei dice che vuole puntare tutti gli investimenti sull’ambiente e sullo sviluppo sostenibile.

«Non è una stranezza: lo stanno facendo tutte le grandi capitali europee, e da anni. Dobbiamo recuperare il nostro ritardo».

Non teme che i suoi concittadini non siano contenti di sentirselo dire?

«Non ho paura di dirlo, perché è la realtà. Verona è una delle città italiane che oggi ha il più alto potenziale inespresso. E dunque deve resistere alla tentazione di poter bastare a se stessa».

Lei è stato anche il primo giocatore italiano a trasferirsi in Cina.

«Ho lavorato, giocato e vissuto in quel Paese per un anno. Ho visto un possibile futuro e ho anche capito quello che non mi piace di un modello di sviluppo».

Oggi tutti dicono di voler essere «green». Perché dovremmo credere che lei lo sarà davvero?

«La mia non è una posa, o un modo facile per accodarsi ad una moda. Io credo fermamente al valore della più bella massima di Robert Baden Powell».

Quale?

«Quella che dice: “Noi non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo avuto in prestito dai nostri figli. A loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato”. Mi sembra ancora più attuale oggi, nel mondo di Greta, che negli anni del Novecento in cui lui coniò questa massima».

È vero che il suo cantante preferito è Bob Marley?

«È quello che mi comunica in modo più immediato un sentimento di libertà».

Sa che qualcuno sostiene che da sindaco dovrebbe tagliarsi i suoi capelli lunghi?

«Impossibile. Dovrebbero prima convincere mia moglie».

È sincero quando dice che dedicherà molto tempo all’ascolto?

«Io ascoltando imparo».

Se fosse un vino veneto quale le piacerebbe essere?

«Un Ripasso: buono nella sostanza, senza la pretesa di essere appariscente».

Mi dica un motivo secco per cui un cittadino veronese non dovrebbe votare l’amministrazione uscente.

«Perché io do la garanzia di non mantenere nessuna clientela amministrativa».

Se viene eletto diventerà un leader nazionale?

«Le ho detto che avevo i pesi di legno, si figuri se non so come si fa a restare con i piedi per terra».

Una volta lei ha detto: «Se non fossi diventato quello che sono, mi sarebbe piaciuto molto fare l’autista dei pulmini della scuola».

«Lo penso davvero».

È una provocazione?

«No, semmai è perché quello è uno dei ricordi più belli della mia infanzia».

Quale?

«L’emozione del tragitto che si fa insieme agli altri, la stima per il ruolo di quell’uomo che guidava per tutti, come il garante di un servizio sociale. La vita è lunga, magari sono ancora in tempo per riuscire a farlo».

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