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Home » Politica

Cuperlo a TPI: “Il Pd da solo non basta. Lancio la mia area politica per una svolta radicale nel mondo post-Covid”

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Gianni Cuperlo. Credit: Ansa

Nasce una nuova area in seno al centrosinistra, in senso ampio. In questa intervista, il presidente della Fondazione Pd ne delinea gli obiettivi, in vista del lancio ufficiale di domenica 13 dicembre, in diretta streaming. L'anticipazione sul Mes: “Il voto del Parlamento confermerà la linea del governo e di Zingaretti, che è di assoluto buon senso”

“Radicalità per ricostruire” è il titolo del documento con il quale Gianni Cuperlo ha stimolato, fin dalla scorsa estate, il dibattito su un quadro fortemente mutato in seguito alla pandemia di Covid-19. Un dibattito nel quale l’ex parlamentare, oggi presidente della Fondazione Pd, intende coinvolgere anche chi è fuori dal partito. L’occasione per discuterne sarà domenica 13 dicembre, dalle 10.00 alle 13.30, con la diretta Facebook sulla pagina chiamata appunto “Radicalità per ricostruire”. Un appuntamento che segna anche una svolta importante nel cammino del centrosinistra, con la nascita di una nuova area culturale e politica che ancora non ha un nome, ma che guarda al prossimo futuro con le idee molto chiare, come lo stesso Cuperlo ha spiegato a TPI.

Cuperlo, la nuova area che fa riferimento a lei non ha ancora un nome, dopo le esperienze di “SinistraDem – Campo Aperto” e “Democrazia Esigente”. Possiamo però già indicarne le parole-chiave?

Quelle esperienze sono parte di noi e nel caso di ‘Democrazia Esigente’ coi suoi laboratori c’è un lavoro prezioso che prosegue. Il punto è che in un pugno di mesi è cambiato il mondo. Non sono solo i sessantamila morti, l’angoscia su terapie intensive e vaccini, le scuole chiuse, i posti di lavoro persi, le centinaia di migliaia di nuovi poveri. È proprio che da uno spartiacque del genere l’Occidente dovrà uscire con altre certezze e categorie nel pensare l’economia, i diritti e doveri, la dignità della persona. E però se il mondo cambia con una rapidità imprevista, nessuno può restare fermo dov’era. Viene un momento che chiede il coraggio di ripensare le priorità e come imporle nella cultura e identità della sinistra. Noi abbiamo iniziato a farlo con un documento a modo suo ambizioso, centrato sul termine ‘radicalità’, perché di questo sentiamo che la politica ha più bisogno, di un pensiero autonomo dai riti e miti che hanno condizionato gli ultimi due o tre decenni.

Come si colloca questa nuova area all’interno del Pd e del centrosinistra?

Me lo faccia dire così: senza il Pd, semplicemente una alternativa credibile alla destra non c’è, ma il Pd da solo non basta. E non basta perché dobbiamo riconoscere che al suo interno oggi non vi sono tutte le energie e risorse politiche, intellettuali, etiche che servono a tagliare quel traguardo. Noi ci mettiamo al servizio di questa apertura, con una proposta anche organizzativa, senza arroganza e con la volontà di dire, fare, e soprattutto essere un vascello che aggrega idee e persone. Lo facciamo dentro il Pd, ma con uno sguardo ben piantato fuori anche perché da sempre abbiamo cercato di rappresentare un ‘ponte’ e per primi, grazie di averlo ricordato, abbiamo scelto la dizione di ‘Campo Aperto’.

È corretto dire che la chiave di volta di questa nuova esperienza sia proprio nel riprendere un tentativo già fatto da altri, ma senza troppa fortuna? Come mai è così difficile “creare un ponte” con ciò che sta fuori dal partito?

Potrei dirle perché per dialogare bisogna essere in due. Invece per troppo tempo, anche il nostro campo ha preferito dividersi più che ascoltarsi. In più si è consumato uno schiacciarsi sulle sole istituzioni. L’intera dimensione della rappresentanza si giocava e risolveva dentro quel perimetro, con effetti non sempre positivi: lo svilimento della partecipazione e del ruolo stesso dei partiti di stagione in stagione battezzati liquidi o consegnati al primato esclusivo di un leader. Lo scollamento che ne è seguito ha accentuato questo divorzio tra democrazia, civismo e corpi intermedi, in qualche modo aprendo la via a populismi di diversa matrice.

Cosa ci insegna la vittoria di Joe Biden?

Ho visto che all’indomani di un risultato storico non solo per gli Stati Uniti, qui da noi si è riaccesa la disputa coi sostenitori accaniti della tesi ‘mettetevi il cuore in pace: le elezioni si vincono al Centro’. Ora, al netto del fatto che nessuno pare in grado di spiegare cosa sia e dove stia oggi questo fantomatico ‘Centro’, tendo a credere che Biden abbia saputo gestire nel modo migliore la polarizzazione imposta alla campagna dall’azione sciagurata e dal linguaggio sventurato di Donald Trump. Detto ciò, può darsi che Bernie Sanders o Elisabeth Warren non avrebbero avuto la stessa presa sul voto più moderato, ma di una cosa sono certo: che senza le idee e l’impostazione radicale di Sanders e della Warren, oggi Biden non starebbe per entrare alla Casa Bianca.

Il populismo è stato messo in forte difficoltà anche per via del Covid-19, che ci ha dimostrato con durezza quanto siano interrelati i nostri destini, ma è tutt’altro che sconfitto: Lei cosa ne pensa?

Sarebbe un errore pensare che la tragedia di questi mesi abbia annullato il vento che ha gonfiato nel tempo le vele di quel sovranismo e nazionalismo. La pandemia ha evidenziato la fragilità di quell’impianto, questo è vero. Lo si è visto con ricadute drammatiche dove era al governo, penso a Johnson, Trump, Bolsonaro. E lo si è visto anche da noi, dove per mesi quella destra si è scoperta incapace di comprendere la brutalità degli eventi. Ascoltavi i loro leader e sentivi la stessa cantilena su porti chiusi, flat tax, l’Europa matrigna. Questo sino a quando la durezza dei fatti li ha ricondotti a un principio di realtà, ma guai a sottovalutare l’arma di cui dispongono e che era e rimane la capacità di cavalcare l’onda del rancore, della rabbia, del ribellismo sociale se un nuovo centrosinistra non è in grado di offrire risposte all’angoscia delle famiglie, delle imprese, di chi vorrebbe lavorare e non può farlo. In questo senso l’ultimo rapporto Censis con quell’immagine dell’Italia come una ruota quadrata deve valere come monito ad agire presto e bene.

In Europa quali sono le possibilità che si aprono per il post-Covid, anche attraverso il Recovery Fund?

Per quanto ci riguarda sono possibilità enormi. Pensiamo al fatto che i nostri fondamentali economici non sono mai stati così fragili. Chiuderemo l’anno con 10 punti, forse più, di flessione del Pil. È vero che faremo deficit al 12 per cento e questo grazie al fatto che l’Europa questa volta ha battuto un colpo: ha sospeso da subito il patto di stabilità e le norme sugli aiuti di Stato. Allo stesso tempo da almeno cinquant’anni non disponiamo di un volume di risorse così ingente come quello che potremmo investire con i fondi che arriveranno dall’Europa e che dovranno essere indirizzati verso poche linee strategiche: una società digitalizzata, la transizione a una economia sostenibile in termini ambientali e sociali, il contrasto di quelle disuguaglianze che la pandemia ha già accentuato. È un’altra Europa che cerca di archiviare la stagione del rigore e del conflitto tra governi per proporsi finalmente nella sua dimensione comunitaria.

In Italia un passo importante è stato compiuto con il superamento dei decreti Salvini: quali saranno i prossimi?

Per noi la modifica di quei decreti era un impegno morale assunto alla nascita del governo. Ci siamo arrivati con ritardo? Sì, in parte è vero, ma lo si è fatto e il risultato penso vada rivendicato per ciò che è: i contenuti più odiosi di quei decreti sono stati modificati anche grazie al lavoro del Parlamento, con la prima commissione della Camera impegnata per due settimane a esaminare centinaia di emendamenti. Adesso il voto definitivo spetterà al Senato. Poi, certo molto resta da fare a partire dal superamento del regolamento di Dublino, dall’approvazione dello ius culture e la cancellazione della Bossi-Fini col reato di clandestinità, ma infine, e soprattutto, ciò che serve è un piano strategico sui corridoi umanitari rispetto al quale è bene che il governo recepisca facendolo suo l’ordine del giorno a prima firma Pollastrini, approvato la settimana scorsa alla Camera.

Sulla questione Mes si sta cercando una sintesi che consenta alla maggioranza di rimanere coesa: a che punto siamo?

Siamo alla vigilia di un voto del Parlamento che alla fine immagino confermerà la linea del governo. Si tratta di una riforma alla quale abbiamo contribuito, che rafforza il processo dell’unione bancaria e tutela maggiormente i governi che dovessero imboccare la strada di una ristrutturazione del proprio debito. Quanto all’attivazione del Mes sanitario penso che la posizione espressa nei mesi scorsi da Zingaretti sia di assoluto buon senso: di fronte alla tragedia della pandemia è incomprensibile non ricorrere a un prestito di 37 miliardi concesso a tasso pressoché negativo e da investire nella sanità pubblica.

Il Covid ha messo in discussione alcuni temi che davamo per scontati a partire dalla gestione della sanità e dal rapporto Stato-Regioni: quale direzione dovremmo prendere?

Dovremmo tutti avere chiaro il metro della realtà. Prevedere ventuno sistemi diversi di organizzazione e gestione della sanità pubblica in una stagione ordinaria è di per sé un problema. Farlo nel cuore di una pandemia è irrazionale sotto ogni punto di vista. In questo senso è giusto, una volta che ci saremmo lasciati alle spalle la fase acuta della crisi, discutere seriamente sui limiti della riforma del Titolo V, riforma peraltro voluta all’epoca dal centrosinistra. Nella Costituzione sono già previsti meccanismi che consentono una clausola di supremazia in capo allo Stato centrale. Dovremmo con la collaborazione di tutti, regioni comprese, ricostruire un ordine è una gerarchia delle decisioni che in caso di emergenza ci consenta di affrontare i problemi nella maniera più celere ed efficace.

La crisi pandemica ha certamente acuito la forbice sociale e quando finirà il blocco dei licenziamenti probabilmente attraverseremo momenti di forte crisi: come possiamo invertire la rotta?

Ma anche qui torna con forza il tema di come utilizzeremo le risorse disponibili dall’Europa. Perché la sfida è evitare di disperderle in mille rivoli e indirizzarle verso quelle riforme strategiche in grado di generare benefici anche sotto il profilo dell’occupazione e dell’investimento sui giovani e le donne. Nell’immediato credo sia importante che il governo si faccia carico di un disagio sociale che esiste. Non è tempo di una concertazione nel senso tradizionale, questo lo capisco, ma da una crisi di questa portata non si esce senza che la politica abbia la capacità di coinvolgere nelle scelte di fondo tutti i principali protagonisti sociali, il mondo del lavoro, sindacati e imprese, i sindaci e gli amministratori locali, il Terzo settore, le associazioni della cittadinanza attiva, la cultura e l’informazione.

In che modo la radicalità è centrale per la ricostruzione del Paese?

Potrei dire nel coraggio di qualche eresia. Quando sei immerso dentro uno spartiacque come quello attuale, devi coltivare il coraggio di una radicalità nel modo di pensare al dopo e non basta aggiornare le ricette del passato.

Serve radicalità anche in campo ambientale visto che la questione climatica non consente più di tergiversare; come conciliare queste ragioni con quelle più generali di un’economia da rilanciare?

Ma quello non a caso è uno dei tre temi che l’Europa ci consegna come l’urgenza. Una parte significativa delle risorse che riceveremo verrà investita in una riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo. Significa un piano decennale per la messa in sicurezza di suolo e territorio, adeguare gli edifici pubblici a norme di efficientamento energetico con effetti di risparmio e benefici per le popolazioni, ma vuol dire anche affrontare il capitolo dei venti miliardi di sussidi pubblici che continuiamo a erogare alle industrie inquinanti mentre questo è il momento dove bisogna accelerare un processo di riconversione che si faccia carico di ogni singolo posto di lavoro, ma superando il ricatto che contrappone quell’impego e quel salario al diritto alla salute.

Un tema sul quale lei è spesso tornato è la scuola, fortemente penalizzata dalle due ondate di pandemia: come si può ipotizzare una migliore gestione del tema nel caso ve ne fosse una terza?

Noi dobbiamo fare di tutto perché quella terza ondata non vi sia o comunque abbia un impatto assai meno traumatico delle prime due. Detto ciò, il capitolo della scuola è decisivo per tante ragioni. Perché stiamo togliendo ai nostri ragazzi mesi di vita e di socialità oltre che di didattica. Perché la stessa didattica a distanza, apprezzabile per mille ragioni, ha lasciato quasi mezzo milione di bambini e ragazzi esclusi da quell’opportunità, perché le case non sono tutte uguali e non tutte le famiglie dispongono di computer o di una rete. In questo la pandemia ha rivelato il dramma di disuguaglianze che affondano nel prima e che rischiano di acuirsi nel presente. Ecco se un compito, una priorità, la sinistra deve aggredire oggi è farsi carico di quel divario e restituire agli ultimi della fila la certezza che il loro destino può cambiare.

Leggi anche: Cuperlo, nuova star di Facebook a sua insaputa: cresce come Salvini, ma senza una strategia/ 2. Far saltare oggi il Governo Conte non giova a nessuno, se non a qualche tecnocrate (di L. Telese) / 3. Retroscena TPI – Milano, il centrodestra ha scelto lo sfidante di Sala: è Roberto Rasia dal Polo, manager ed ex giornalista

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