Costituzione tradita: ecco quali sono i 15 principi che vengono sistematicamente violati
Quasi 75 anni dopo, la nostra Carta fondamentale ci parla ancora. Ma noi sappiamo ascoltarla? Ecco i valori costituzionali che oggi vengono sistematicamente violati e sui quali c’è ancora molta strada da fare
Il 22 dicembre 1947 l’Assemblea costituente approvava il testo della Costituzione italiana, frutto di un lavoro di compromesso e di conciliazione tra le diverse componenti politiche chiamate ad esprimersi sui valori e sull’organizzazione della nascente Repubblica. Il documento entrò in vigore il 1° gennaio 1948. A quasi 75 anni di distanza dalla sua stesura, la lettura di quella Carta – più volte modificata – risulta ancora profondamente attuale: la nostra Costituzione sa parlarci ancora, e questo è un ottimo segnale. Ma noi sappiamo veramente ascoltarla? A giudicare dai nodi mai risolti e dai problemi che, anziché andare verso una soluzione conforme agli auspici dei nostri costituenti, diventano sempre più gravi, abbiamo smesso di farlo, e da parecchio tempo (LINK AL PEZZO DI AINIS). Per questo TPI ha individuato 15 punti fondamentali su cui la Costituzione è stata tradita. Da questa settimana e durante le prossime ci occuperemo di analizzare alcuni di questi temi, con degli approfondimenti e delle proposte per intervenire. Ci piacerebbe ripartire proprio da questi argomenti, facendoci guidare dallo spirito dei costituenti, per sognare una società più degna e più giusta.
Per la Costituzione «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Nonostante la direzione indicata dai costituenti, oggi assistiamo all’acuirsi delle disuguaglianze: un fenomeno che si è aggravato con la pandemia, ma che è iniziato già diversi anni fa (leggi qui).
La parità di genere è richiamata in diversi articoli della Costituzione, che prevedono tra l’altro che «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», ma sul punto c’è ancora molto da fare. L’indice sull’uguaglianza di genere nel 2021 assegna al nostro Paese 63,8 punti su 100, collocandola al 14esimo posto sui 27 Stati Ue. Nell’area occupazionale, l’Italia si colloca costantemente all’ultimo posto tra tutti gli Stati membri dell’Ue con 63,7 punti. L’incidenza del lavoro femminile è pari solo al 42,2 per cento secondo i dati sull’occupazione 2021 diffusi dall’Istat ed elaborati dalla Fondazione Moressa.
Gli scempi del paesaggio, i mancati interventi sulle aree contaminate e le politiche insufficienti sulla lotta al cambiamento climatico tradiscono la volontà della Carta costituzionale: una violazione che diventa ancora più grave dal momento che, da febbraio 2022, è stato inserito in Costituzione un nuovo comma, secondo cui la Carta: «Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni». Dall’Ilva ai poli petrolchimici siciliani, dalla Terra dei fuochi ai siti di interesse nazionale, sono numerosi gli esempi di come il danno all’ambiente si ripercuota sulla salute delle persone che vivono in quei luoghi, con conseguenze anche pesanti. Solo per l’inquinamento atmosferico si calcola che in Italia muoiano prematuramente ancora oggi circa 60mila persone l’anno (una media di 165 al giorno) secondo i dati dell’Agenzia europea dell’ambiente. Ci sono poi gli effetti del cambiamento climatico, come la prolungata siccità degli ultimi mesi e lo scioglimento dei ghiacciai. Anche queste conseguenze ci riguardano direttamente, come ha dimostrato il crollo di un blocco di ghiaccio sulla Marmolada (Dolomiti) che pochi giorni fa ha travolto alcuni alpinisti, provocando diverse vittime. Infine, i danni ambientali possono distruggere interi ecosistemi: secondo i dati Ispra nel 2021 l’ondata di incendi in Italia ha bruciato «il triplo degli ettari del 2020», colpendo soprattutto il Mezzogiorno e bruciando una superficie pari allo 0,5 per cento del territorio Italiano (circa il Lago di Garda).
«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Così recita l’articolo 4 della Costituzione, una norma che viene drammaticamente violata a causa delle morti sul lavoro. Nei primi cinque mesi del 2022 sono state 364, con una media inquietante di oltre due decessi al giorno (dati dell’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre). A questo si aggiunge la sostanziale mancanza, in molti casi, di una retribuzione equa per il lavoro svolto. Un diritto riconosciuto dall’articolo 36, che stabilisce che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Il contrario di ciò a cui assistiamo oggi tra lavoratori sfruttati dalle grandi multinazionali, rider e stipendi inadeguati.
All’articolo 81 la Costituzione ci vincola al rispetto del principio del pareggio di bilancio: una norma introdotta nel 2012 che consente il ricorso all’indebitamento «solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali». Una regola che impone anche agli enti locali l’equilibrio tra entrate e spese. Nonostante ciò, l’Italia continua a indebitarsi, caricando di questo peso le generazioni future, ritenute meritevoli di tutela dall’articolo 9 recentemente riformato.
«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». È questa la previsione dell’articolo 11 della Costituzione, finito al centro di un dibattito dopo il conflitto in Ucraina e gli aiuti al governo di Kiev. Ma quali sono i limiti agli interventi del nostro Paese sulle guerre internazionali? L’Italia è già intervenuta – anche con il proprio esercito – in una serie di conflitti, tramite le missioni di pace, e produce ed esporta armi che finiscono nei conflitti internazionali, come avvenuto ad esempio in Yemen.
In Costituzione non è mai nominata la parola “privacy”, ma la tutela di questo valore è ritenuta implicita in diverse previsioni. Tra queste c’è l’articolo 15, che definisce «inviolabili» la «libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione». Eppure le grandi aziende tecnologiche oggi lucrano sui nostri dati, che cediamo loro spesso inconsapevolmente. Da Google a Facebook, le informazioni che lasciamo gratis online alimentano gli affari immensi delle Big Tech, e le azioni intraprese finora non sono riuscite a realizzare una vera e piena tutela.
La Carta costituzionale stabilisce che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Ciononostante la realtà in Italia è ancora ben diversa. Secondo il rapporto 2022 di AlmaDiploma, tra i diplomati del 2020 appartenenti a una classe più elevata è nettamente più frequente l’iscrizione all’università dopo il diploma rispetto ai giovani provenienti da famiglie meno favorite (rispettivamente 87,6 per cento e 67,6 per cento). Differenze che vengono confermate, anche se su livelli differenti, anche per tipo di diploma.
In ottemperanza al principio della separazione dei poteri, la funzione legislativa appartiene alle Camere (art. 70). Il governo ha però la possibilità di adottare, in casi straordinari di necessità e di urgenza, i cosiddetti decreti legge. Si tratta di provvedimenti provvisori con forza di legge che hanno effetto immediato, ma che diventano definitivi solo se sono convertiti in legge dalle Camere entro 60 giorni dalla pubblicazione. In caso contrario, perdono efficacia sin dall’inizio (art. 77). Nonostante il dettato costituzionale, da ormai molti anni il governo di fatto legifera tramite decreti legge anche al di fuori dei casi straordinari di necessità e urgenza: una prassi che va avanti nonostante le numerose censure della Corte Costituzionale. La scelta dello strumento del decreto è dettata in questi casi dalla volontà di bypassare il normale iter di formazione della legge, che sarebbe più lungo e articolato ma anche maggiormente rispettoso delle funzioni del Parlamento. Tra gli ultimi decreti legge esaminati dalle Camere per la conversione, ad esempio, c’è quello sulle «Misure urgenti in materia di semplificazioni fiscali e di rilascio del nulla osta al lavoro, Tesoreria dello Stato e ulteriori disposizioni finanziarie e sociali» o le «Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo delle infrastrutture, dei trasporti e della mobilità sostenibile, nonché in materia di grandi eventi e per la funzionalità del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili».
Già nel 1990 il filosofo Norberto Bobbio parlava di «trucco» a proposito dello strumento del quorum per i referendum abrogativi. Oggi, in un’epoca in cui l’astensionismo tocca livelli record, questo strumento – che richiede la partecipazione della maggioranza degli avanti diritto – fa abortire uno dietro l’altro i tentativi di applicare la democrazia diretta, a prescindere da quanti siano i favorevoli e i contrari nel merito. L’ultimo caso è quello che riguarda i referendum sulla Giustizia, promossi dalla Lega e dal Partito radicale. Come ha spiegato di recente il professor Michele Ainis in un articolo su TPI, ad oggi sarebbe opportuno ripensare questa scelta. «A quel tempo 9 italiani su 10 andavano a votare; adesso, quando va bene, uno su due. Sicché pretendere un’alta affluenza è divenuto antistorico».
Inoltre, prosegue Ainis, «Il quorum presuppone un ambiente politico leale, altrimenti i partiti contrari al referendum hanno buon gioco ad organizzare l’astensione, sommandosi alla quota d’astensionismo fisiologico». Ed è esattamente quel che è accaduto dal 2005, con il referendum sulla fecondazione assistita, in poi. A proposito di lealtà: anche quando un referendum viene approvato, non è detto che poi sia tradotto in realtà, come accaduto con il voto sull’acqua pubblica nel 2011, che raggiunse il quorum del 54 per cento e il 94 per cento dei sì. Una volontà che è stata tradita, fino a oggi, da tutti i governi in carica.
Dal 1948 a oggi la previsione costituzionale sui sindacati è rimasta inattuata, non essendo mai stati istituiti gli «uffici locali o centrali» presso cui predisporre i registri per l’iscrizione delle organizzazioni sindacali. Una registrazione che ha come condizione «che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica» e come effetto l’attribuzione di personalità giuridica e, dunque, la possibilità di stipulare «contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria» per tutti gli appartenenti alle categorie coinvolte. Le ragioni della mancata attuazione sono diverse e includono l’opposizione delle stesse organizzazioni sindacali.
«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». È questo il testo dell’art. 49, figlio di un’epoca in cui le grandi formazioni politiche erano il vero punto di collegamento tra società e istituzioni, e contribuivano in modo centrale alla definizione della linea politica. La questione aperta è cosa sia rimasto oggi di questa norma, rimasta priva di una legge di attuazione, con i partiti che spesso non sono in grado di rispettare il metodo democratico e hanno perso sempre di più il loro ruolo.
La Costituzione prevede che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». È dalle tasse infatti che dipende il funzionamento di servizi essenziali dello Stato come la sanità, la scuola, il sistema previdenziale, le infrastrutture, il welfare, la difesa, la giustizia. Ma l’evasione fiscale resta uno dei mali endemici italiani: colpisce le casse dello Stato distraendo le risorse e inficiando le nostre possibilità di vivere in un Paese efficiente e funzionante. E le misure messe in campo finora per contrastare questo fenomeno non si sono rivelate sufficienti.
«I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». È quanto prevede l’articolo 54 della Costituzione al secondo comma: una regola etica e morale che diventa anche giuridica, essendo richiamata esplicitamente dalla nostra Legge fondamentale. Eppure dalle transumanze parlamentari fino alla compravendita delle correnti del Consiglio superiore della magistratura, con tutti i recenti scandali, sono numerosissimi i casi in cui questo principio viene tradito.
La riforma costituzionale del 1999 ha inserito il principio del processo equo nella Costituzione. L’articolo 111 stabilisce dunque ai primi due commi che: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Tali principi sono anche previsti dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cui l’Italia ha aderito. Nel nostro Paese, tuttavia, le criticità strutturali del sistema giudiziario hanno determinato lentezza e durata eccessiva dei processi. Questo ha portato negli anni a ripetute condanne da parte della Corte Edu, che ha sanzionato l’Italia in diversi casi, e ha spinto il legislatore ad approvare nel 2001 la c.d. “legge Pinto”, che prevede e disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito. Il tema è ancora oggi molto caldo: l’ultimo rapporto della Commissione per l’efficacia della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej) basato sui dati del 2018 ribadiva come l’Italia fosse tra i peggiori Paesi europei per quanto riguarda i tempi delle controversie civili. E i processi penali non sono da meno: con la pandemia nel 2020 le durate medie dei processi sono arrivate a 684 giorni di fronte al tribunale monocratico (+13,1 per cento sul 2019) e a 727 giorni di fronte a quello collegiale (+9,8 per cento). Per rispettare gli obiettivi imposti dal Pnrr servirà una netta inversione di tendenza.