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Il ministro Boccia a TPI: “Sta partendo l’esercito più utile di questa crisi: quello dei volontari sanitari”

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Il ministro per gli Affari regionali: "La risposta al nostro appello è stata cento volte superiore alle attese. E di questi volontari resterà un’anagrafe: una task force di riservisti di cui già conosciamo la storia, il valore, i talenti”

Ministro Boccia, cosa sta facendo stasera?

Mi preparo a partire.

Per cosa?

Per la missione più bella dall’inizio di questa crisi.

Quale?

Si ricorda di quando abbiamo fatto l’appello per i volontari sanitari, pochi giorni fa?

Certo.

Adesso posso confessare che quando lo abbiamo lanciato c’erano molto scetticismo e tanti timori tra di noi.

E invece?

Abbiamo avuto una risposta spendente, generosa ed enorme, da tutto il Paese. Nettamente superiore alle aspettative.

Di che numeri parliamo?

Cifre di cento volte superiori a quelle che ci si immaginava.

Addirittura?

Dopo aver fatto la scrematura, parliamo di tremila medici e di settemila infermieri già operativi. Ne restano molti altri, potenzialmente operativi, di riserva.

Più di ogni rosea previsione.

Il primo contingente è già sul campo, li ho accompagnati io stesso a Bergamo e a Brescia.

E il secondo?

Speranza ed io partiamo domani. Io stavolta andrò in Piemonte.

È una brigata di volontari?

Di più, direi. Un esercito di sanità solidale che attraversa il Paese, da un capo all’altro, con la collaborazione di tutte le strutture dello Stato.

Un miracolo.

Credo di poterlo dire così: è la bandiera più bella che sventola su questo campo di battaglia oggi.

Perché?

Ho già fatto questo viaggio con i primi di loro, ci ho parlato, li sto imparando a conoscere: sono tutti volontari che partono con una idea di missione in testa.

E non si aspettava una risposta di queste proporzioni?

Devo essere sincero? Non una risposta di questa entità. Non è solo commovente: è un gesto che dà speranza.

Francesco Boccia, ministro per gli Affari Regionali spiega come è nata la spedizione di soccorso più insperata dall’inizio della crisi del Coronavirus. Una missione di Solidarietà fatta di medici ed infermieri, tutti volontari.

Come è nata l’iniziativa?

All’inizio c’erano addirittura dei dubbi sull’idea stessa di fare questo appello diretto.

Come mai?

Cominciamo dall’inizio. Tutto è partito dal sistema Cross, che, come molti sanno, è un meccanismo di solidarietà già attivo fra le regioni gestito dalla Protezione Civile.

Che ha funzionato quando cercavate ancora solo dei posti letto per i malati.

Esatto. In questi giorni Lazio, Puglia, Campania, Molise, Toscana, Sicilia e Abruzzo hanno messo a disposizione molti dei loro posti di terapia intensiva per i lombardi che gli ospedali regionali non riuscivano più ad accogliere.

Quanti?

Quasi cento, 94 per la precisione. Solo quelli assistiti fino ad oggi, intendo.

Però?

Ci siamo accorti per ovvi motivi che, più andavamo avanti nel tempo, più la disponibilità di questi posti calava.

Perché?

In primo luogo perché anche nelle altre regioni arrivava il contagio.

Così avete pensato che la montagna dovesse andare da Maometto.

Abbiamo immaginato un sistema di cinque grandi nuovi ospedali Covid da aggiungere alle strutture che esistevano prima della crisi, e a quelle che precipitosamente sono state già riconvertite.

Quanti posti sono già stati creati rispetto ai 5.324 di quando è esplosa la pandemia?

Ogni giorno ne arrivano di nuovi: io credo che siamo già intorno ai cinquemila in più, nel momento in cui parliamo esattamente 9.201 attivi.

Il primo nuovo ospedale è stato quello della Fiera di Milano.

Esatto. Poi ne faremo uno in Toscana uno a Roma, uno a San Giovanni Rotondo. È poi un altro, in un luogo ancora da individuare, quando sapremo come si muove il virus e dove.

Perché?

Dividiamo l’Italia in macro-aree e facciamo in modo che ci sia assistenza in modo uniforme.

Chi ci accederà?

Questi sono tutti centri italiani, di valore nazionali. In qualsiasi luogo ti troverai, da cittadino, sai che avrai uno di questi centri che può ospitarti.

Immaginare di allestire tutti questi ospedali Covid, però…

Ci ha portato a porci il problema dei medici. Che oggi sono diventati pochi anche per gestire le strutture già esistenti.

Per prima cosa avete provato a fare una ricognizione attraverso i normali canali sanitari.

Proprio così. Ma quando nella videoconferenza molte regioni ci hanno detto che non avevano possibilità di spostare medici e le altre ci hanno dato i numeri esigui di quelli che avevano censito ci siamo preoccupati.

Di che cifre parlavano?

Solo sette regioni avevano trovato disponibilità di personale e – sommando i numeri – non si arrivava a quaranta medici in tutta Italia!

Di fatto sarebbe stata una Caporetto.

Così è nata l’idea di un appello e abbiamo chiesto direttamente ai medici e agli infermieri di presentarsi da volontari.

Non potevate accettare tutti.

Escludendo i lombardi, gli emiliani romagnoli, i veneti, i piemontesi e i marchigiani, che erano già sui territori più colpiti, abbiamo avuto una risposta più che straordinaria.

Facciamo il conto.

Sono arrivate ottomila domande, tantissime: verificati i curricula, 6.800 medici erano quelli utilizzabili e – di questi – 3.000 sono già abili e arruolati, scaglionati per le partenze.

Moltissimi, dice?

Può verificare lei stesso che sono in un rapporto centuplicato rispetto a quel censimento condotto per via istituzionale.

Incredibile.

Questo deve farci riflettere sulla distanza tra la burocrazia, la politica territoriale e il popolo degli addetti ai lavori della sanità.

È rimasto stupito?

Le antenne che queste strutture hanno – evidentemente – non captano che una minima parte delle risorse reali, in primo luogo umane, che ci sono sui territori.

Come sono divisi per fasce anagrafiche i volontari?

Il 30 per cento sono pensionati, fino a 70 anni di età. Fra quelli che non abbiamo arruolato c’erano quelli – commoventi – ancora più anziani.

C’erano persone anche di età più avanzata?

Non le dico. Le cito il caso di un medico che ricordo e che mi ha commosso, perché questo dottore aveva 81 anni e voleva partire a tutti i costi!

Eroico. Ma per quelli che sono stati già inseriti nel primo scaglione che cosa sta accadendo?

I primi lì abbiamo convocati a Roma: hanno fatto tutti il tampone, in sicurezza, all’ospedale Celio.

E dove hanno dormito?

In caserma con la Protezione civile: è stato un sacrificio breve che abbiamo chiesto loro, durante queste formalità.

E poi?

Il primo gruppo è stato dislocato a Bergamo e a Brescia, gli altri due li portiamo domani.

Dove?

Io vado in Piemonte e Valle d’Aosta e sono già andato a Bergamo e Brescia.

Come avvengono questi viaggi?

C’è in atto uno sforzo enorme di tutto sistema Italia. Viaggiano in aereo, con i voli militari della guardia di Finanza.

E poi?

Vengono trasferiti con convogli organizzati dalla Protezione civile nelle loro destinazioni. A volte con l’esercito, a volte con le forze dell’ordine.

Chi li paga formalmente, e come?

Abbiamo dovuto ideare un congegno inedito, altrimenti avremmo dovuto stilare bandi e concorsi e non saremmo arrivati mai.

Che tipo di compenso è?

È una indennità forfettaria di 200 euro al giorno. Pagata con i fondi della Protezione civile.

Quanto dura ogni missione?

I turni per ora sono di tre settimane. Immaginiamo di avere bisogno di molte persone e per molto tempo.

È un costo sostenibile.

Scherza? Questo importo è nulla rispetto al costo che avremmo dovuto sostenere se si fossero dovuti assumere tutti con dei contratti standard.

E dove dormono?

Il sito di permanenza durante missione lo decide la Regione che in questo piano offre vitto e alloggio. In Lombardia e in Emilia stanno in albergo. Di solito sono le strutture più vicino agli ospedali perché devono muoversi a piedi.

E gli infermieri?

I primi cento partiranno entro il fine settimana.

Quante sono state le domande?

Novemila, di cui settemila utilizzabili. E il primo scaglione che parte è già di settecento persone.

Anche tra loro tanti pensionati?

No, tantissimi giovani. Tra gli infermieri c’era – come è noto – molta precarietà, è una disponibilità maggiore di personale non inquadrato in nessuna struttura.

Avendo parlato con loro, che impressione si è fatto?

È un esercito di volontari che non ci hanno pensato due volte prima di mettere la loro vita a rischio. Io parto da qui, perché altrimenti non si capisce nulla. L’Italia è anche questo, per fortuna.

Che motivazioni hanno?

È gente che ha una idea di missione in testa. Una signora vicina ai 60 anni mi ha detto: “Lo avrebbero fatto anche molte colleghe se avessero potuto”. Sono venuti dal Sud, dal centro, dalle periferie, da ogni angolo del nostro Paese.

Alcuni sono partiti malgrado la famiglia.

Molti mi hanno detto: “Ho dovuto spiegarlo ai miei figli e a mia moglie. Ma dovevo farlo, perché questo è il mio lavoro”.

È rimasto stupito?

Per me è stata una grande lezione di vita. E per il nostro sistema sanitario è una riserva che sarà preziosa. Anche dopo il Covid.

Perché lei già pensa di usare i volontari in altre missioni?

Resterà una anagrafe: una task force di riservisti di cui già conosciamo la storia, il valore, i talenti.

Cosa le dicono loro?

In questi giorni, quando torno a casa e mi si incrociano gli occhi mi resta l’immagine dei primi partiti, con il sorriso sul volto, le battute, ognuno con il trolley da 50 centimetri in mano.

Poco bagaglio, intende?

Loro ti dicono: “In corsia le regole sono uguali in tutti il mondo”.

E hanno tutto quello che gli serve?

A questa domanda mi hanno risposto divertiti: “Guardi che non ci serve il guardaroba: noi viviamo sempre in camice”.

Ci sono molte frasi polemiche del presidente e degli assessori della Lombardia sull’ospedale che hanno fatto “da soli”.

Non faccio polemiche. Ma loro sanno che nessuno di noi ce la fa da solo.

È vero che eravate contrari alla realizzazione di quella struttura?

Assolutamente no. Tant’è vero che è stato equipaggiato anche con il nostro contributo.

Mi faccia un esempio.

So solo che abbiamo portato in Lombardia oltre 464 ventilatori su tutti che avevamo a disposizione – a livello centrale – per la terapia intensiva e sub intensiva.

Uno su tre di quelli disponibili tutta Italia in Lombardia?

Si, e i primi. Era giusto e sacrosanto farlo per sostenere la prima regione colpita. È un dovere di tutto il paese aiutare la Lombardia.

E poi?

Ho avuto una ulteriore richiesta che mi ha fatto personalmente Bertolaso solo per l’ospedale della Fiera.

E quale era?

“Francesco mi servono altri ventilatori”.

E dove li avete trovati?

Abbiamo subito dirottato lì tutti e trenta i ventilatori acquistati in Russia con i soldi dell’amministrazione centrale. A questo abbiamo aggiunto un migliaio di caschi Cipap.

E farete altro?

Per l’ospedale della Fiera ci siamo impegnati a fornirgliene avere cento. Stiamo cercando gli altri settanta.

Ci sono problemi con le regioni?

Tutte le regioni stanno facendo il massimo, perché come è noto la sanità è loro competenza esclusiva. Ma hanno avuto stanziamenti straordinari e data la situazione lo Stato sta intervenendo anche in maniera aggiuntiva, ovunque può, e in qualsiasi modo riesca a farlo.

Cosa intende?

Di Maio e Guerini in questi giorni sono diventati commessi viaggiatori del sistema-Italia, hanno fatto accordi in tutto il mondo.

Perché c’è stata la polemica sulla vostra decisione di mettere i dati online, allora?

Lo deve chiedere a chi l’ha sollevata.

Non sia diplomatico.

Non lo sono. Nella videoconferenza alcune regioni avevano chiesto di non mettere online i dati sulle forniture.

Per paura di creare reazioni dai territori, forse?

Pensavano che questa scelta potesse portare alcuni territori a chieder conto? Non lo so. Ma io ho fiducia nel buonsenso. Sta di fatto che da ieri si sa tutto quello che sta facendo lo Stato e non abbiamo avuto reazioni negative, anzi.

In che senso?

Ora siamo trasparenti. Ed essere una casa di vetro, in cui tutti possono vedere quello che succede, aumenta i meccanismi di responsabilità in ciascuno di noi.

Le potrà capitare di pentirsi di questa frase, se qualcosa non andasse bene?

No. Perché credo che quando sono in gioco le vite la trasparenza sia un bene prezioso.

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