Conte l’impolitico
Fenomenologia di un leader al di sopra delle parti
Scriveva il filosofo e giurista Carl Schmitt che “il fatto di definire il nemico come politico e se stessi come non-politici (cioè come scientifici, giusti, obbiettivi, imparziali) costituisce proprio un modo tipico e particolarmente intensivo di far politica”. L’impolitico è colui che, a differenza del politico, non prende parte, amministra in nome dell’oggettività della ragione, rifugge l’ideologia e riduce la politica a meri rapporti di forza.
Conte l’impolitico può quindi saltellare da una maggioranza all’altra, dal sovranismo al progressismo, occhieggiando al centrismo moderato. Può brandire il decreto sicurezza e issare il vessillo dell’europeismo, può essere la sintesi tra Salvini e Di Maio, ma anche tra Di Maio e Zingaretti, forse pure tra Bonafede e Paolo Romani. Lo fa per potere, o forse per ragion di stato, di sicuro con la sua impoliticità sobilla e appaga il trasformismo turbo-parlamentarista dei politici di professione.
L’impolitico è uno spirito libero, un’anima bella del parlamento, è la società civile che va in Paradiso. Sguazza autonomo tra gli scranni dell’aula, può sedurre ma non essere sedotto, è pronto a offrire la sua impoliticità al Paese e costruire la migliore delle maggioranze possibili.
L’impolitico sa che troverà ascolto nell’era post-ideologica, sa di essere la sintesi perfetta di n’importe quoi. Orgoglioso della sua malleabilità, pronto a metterla a disposizione di riforme al di là del bene e del male. L’impolitico schifa il secolo breve, è un flaneur delle ideologie, che assorbe indistintamente trattenendo solo ciò che serve.
Per l’impolitico il potere logora chi fa politica, ma non lui: è un indifferente ma tutt’altro che inetto, è un cartesiano mai schiavo delle passioni, sempre certo di se stesso in una costante prova ontologico-politica della propria esistenza. Una prova a priori, ma anche a posteriori: per questo puntella maggioranze alternative, ne crea ex nihilo, è certo di sopravvivere in barba al pallottoliere.
L’impolitico non si illude di essere onnipotente, è una trinità secolarizzata fatta di destra, centro e sinistra, è coincidentia oppositorum, e in modo fiero. L’impolitico è un avvocato, ma non di qualcuno, bensì del popolo tutto. È un uomo per tutte le stagioni, è di governo e mai di lotta, o è di lotta solo in funzione del governo.
L’impolitico viene dal popolo, e il popolo lo apprezza: è uno di noi, un bel presidente, l’apostolo del consumo culturale pop sublimato in conferenza stampa. È talmente gentile e rassicurante da silenziare ogni istinto parricida, con lui i Dpcm sono una edenica servitù volontaria.
Ma l’arte dell’impolitico è anche il suo scacco: è un totem usa-e-getta, appartiene a tutti e a nessuno, è il garante della sopravvivenza comune finché non la mette in pericolo. È la scala di Wittgenstein: utile per arrivare in cima e vederci chiaro, poi da gettare. È una sbornia post-ideologica che prima o poi deve passare, è colui che si può ricacciare nel mondo di sotto senza che nessuno sporga denuncia. È la celeberrima notte in cui tutte le vacche sono nere, può finire rapidamente nell’oblio anche tra le folle prima adoranti.
Da principio tutti sembrano disposti a gettarsi nel fuoco per lui, ma lentamente subentra lo spaesamento. Quella prova ontologica sull’esistenza dell’impolitico diventa un dubbio iperbolico: davvero l’impolitico è esistito, e se sì, chi era? Egli così scolorisce, si fa impalpabile, da statista si sgonfia in incidente della storia, ferro vecchio.
Per evitare tale fine l’impolitico le proverà tutte: sa che egli o è Palazzo Chigi o non è. Se i responsabili non escono dalla tana, all’impolitico non resta che l’incoronazione plebiscitaria: un gorgo elettorale in cui risolvere ogni conflitto in un’indistinzione politico-pandemica in cui può prosperare chi è al di sopra delle parti.
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