I 3 scenari che trasformano Giuseppe Conte in Giovanna d’Arco
La mossa azzardata di Matteo Renzi, che sembra essere ispirata al suo difetto fatale (quel noto impasto di ambizione e azzardo che tanto gli sono costati in questi anni), rischia di trasformare Giuseppe Conte in una novella Giovanna D’Arco della politica. Ovvero fare del premier e della sua maggioranza degli eroi della resistenza al ricatto.
Siamo entrati in questo film dopo che – nella mattina di oggi, martedì 12 gennaio 2021 – Conte ha detto che, se Italia Viva uscirà dalla maggioranza, non potrà più entrare in un governo di cui lui fa parte. Rien ne va plus.
In fondo è questo il regalo più grande che l’uomo di Rignano poteva fare al premier, con cui è impegnato da tempo in una partita a scacchi mortale: quindi è interessante capire come tutto questo sia potuto accadere, e quali scenari si aprano nella crisi, dopo la precipitazione di oggi.
Il primo tema è questo. Ieri sera i palazzi della politica stavano andando a dormire – come spesso accade – mentre prendeva forma l’esito che allora sembrava più probabile: il Conte ter.
Date le premesse, infatti, questo scenario rappresentava una grande vittoria per Renzi, un esito non negativo per il Partito Democratico (che disinnescava la crisi, l’offensiva di Italia Viva e otteneva di riposizionare le sue forze e i suoi uomini) e un amaro calice per il premier. Il quale, tuttavia, secondo gli architetti di questo disegno, veniva compensato da una importante garanzia: quella di rimanere presidente del Consiglio.
Ecco perché tutto lasciava credere che fosse questa la soluzione più probabile per tutti. È vero che Conte in questo scenario incassava una innegabile sconfitta, un colpo di immagine, ma era altrettanto vero che tutti si immaginavano che lo facesse in omaggio al detto di Enrico IV per cui “Parigi val bene una messa”.
Non è andata così, e per due motivi. Il primo riguarda Renzi, che non ha accettato tutti gli inviti che gli venivano fatti, anche in forma di moral suasion del Colle, affinché attendesse almeno venti giorni prima di aprire la crisi: ovvero il tempo necessario al completamento del dibattito parlamentare sul Recovery Plan.
Il Quirinale non ha mai tenuto una posizione “invasiva”, non vuole uscire dalle sue strette prerogative di garanzia, e non poneva limiti all’azione di Italia Viva. Tuttavia chiedeva all’uomo di Rignano questo gesto di eleganza politica per poter mettere in sicurezza il Sistema Paese, garantendo in una fase molto delicata, la continuità istituzionale. Così non è stato.
Cosa ha spinto Renzi a forzare la mano? Il suo carattere, la sua notoria diffidenza, la sovraesposizione mediatica e il timore di perdere il treno per poter avviare la crisi. Una adrenalina sovreccitata che traspare anche dalle parole consegnate questo pomeriggio ad Alessandro De Angelis: “Ormai è questione di ore. Il Conte ter – dice l’ex premier – lo ha cancellato Conte. È evidente che a Palazzo Chigi ha prevalso la linea Travaglio-Casalino. Auguri”.
Il gioco che gli viene meglio, “lupus et agnus”, in cui il leader di Italia Viva rimprovera al presidente del Consiglio di non aver accettato la posizione più comoda, quella che Renzi aveva immaginato per lui.
L’ex premier sapeva, infatti, che – una volta chiuso l’iter parlamentare del Recovery plan – insieme con il lieto fine, sarebbe venuta meno una delle principali argomentazioni che lui in questo momento sta usando come un pretesto per disarcionare il governo.
In secondo luogo, probabilmente, il leader di Italia Viva era convinto che Conte non avrebbe osato il tutto per tutto, correndo il rischio di essere sfiduciato in Senato (cosa che, dopo il comunicato di oggi di Palazzo Chigi, non può essere in linea di principio esclusa).
Tuttavia, la mossa a sorpresa di Conte di questa mattina ha cambiato le carte in tavola, e qui sta il secondo motivo per cui il Conte ter non si è concretizzato. Mettendo a rischio il suo incarico, Conte vede il bluff di Renzi e lo obbliga ad esporsi, insieme con la sua pattuglia parlamentare.
Inoltre, usando l’argomentazione del percorso incompiuto del Recovery, che la crisi di governo lascia a metà strada, è evidente che il presidente del Consiglio si esponga, ma nel contempo ha anche guadagnato un’arma propagandistica potentissima nello scontro che si prepara.
Conte adesso può andare in Senato, chiedere la fiducia, e spiegare che – data la sua rinuncia annunciata ad un Conte ter – lo scenario del voto non è più impossibile. Il presidente del Consiglio diventa così “Giovanna d’Arco”, perché può dire ai cittadini di essere pronto a rinunciare ad una poltrona certa, e di fare una battaglia nell’interesse del paese contro un interesse di partito.
Diventa “Giovanna d’Arco” se va in Parlamento e ha i numeri (quindi vince). Ma diventa “Giovanna d’Arco” anche se va in Parlamento e non ce li ha (quindi perde). E sicuramente diventa “Giovanna d’Arco” se alla fine Renzi cambia idea e non ritira le ministre di Italia Viva.
E diventa “Giovanna d’Arco” anche perché si trasforma nella bandiera del Movimento Cinque Stelle. E lo riunisce nell’unico possibile punto di sintesi fra tutte le posizioni che oggi esistono nella galassia del promo-partito di maggioranza.
Ed ecco il secondo errore di valutazione strategico di Renzi. Se non c’è più la coalizione giallorossa, infatti, come può pensare il senatore di Rignano che il primo partito del parlamento (i rapporti di forza sono quelli del 2018, non va mai dimenticato) possa accettare senza batter ciglio, di vedere detronizzato il “suo” premier, per essere spinto a sostenere un governo di tipo istituzionale con Forza Italia e, forse, pezzi della Lega?
Sarebbe un suicidio politico. Sarebbe un passo dilaniante che porterebbe ad una scissione. Ma, soprattutto, sarebbe uno scenario parlamentare difficilissimo da reggere, in cui il Big Bang del M5S diventerebbe probabile.
Così andava letto un avvertimento che è stato già dato dal capo delegazione del Movimento, Stefano Patuanelli (su La Stampa di ieri) ed è una posizione che viene ribadita in queste ore anche dal leader del movimento Vito Crimi: senza Conte un’altra maggioranza non c’è. E, senza Conte, quelli come Alessandro Di Battista chiederebbero conto di una scelta che mette in gioco l’identità del Movimento.
Se stasera ci fossero le dimissioni dei ministri renziani, e Conte dovesse andare a cercarsi i voti in Senato, i casi possono essere solo due. O il premier non trova una maggioranza (ma allora diventa difficilissimo, per i motivi che abbiamo detto, trovarne un’altra senza i Cinque Stelle). Oppure trova una maggioranza, e allora Italia Viva diventa irrilevante, una stampella aggregata a Salvini e Meloni.
Nel primo caso, il rischio di andare al voto, diventa fortissimo: molti senatori di Italia Viva si troverebbero nella sfortunata ipotesi di dover scegliere fra seguire il loro leader, e suicidarsi, andando incontro (in primo luogo) alla rabbia dei loro elettori, e alla prospettiva di elezioni anticipate, con un partito che difficilmente potrebbe superare lo sbarramento elettorale.
Forse tutto questo a Renzi conviene, per recuperare un ultimo giro di visibilità mediatica e un ruolo politico che sembrava perduto dopo la catastrofe del 2018. Ma, di certo, questo scenario non conviene ai suoi parlamentari, e a tanti senatori (tre su quattro, per effetto del taglio della rappresentanza) che in caso di voto non tornerebbero di certo in Parlamento.
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