Irene Testa a TPI: “Nelle carceri italiane ho visto l’inferno”
"C’è troppa indifferenza di fronte al grido di disperazione che viene dalle carceri. Molti detenuti soffrono di dipendenze o di disturbi psichici ma non ricevono assistenza. C’è chi urina in cella e chi si strappa le unghie dei piedi. E avviene in media un suicidio ogni 2 giorni. Ingiustizie come nel caso Zuncheddu non sono isolate. Ma la politica non ha coraggio". Intervista alla Garante dei detenuti della Sardegna
Lo stato di salute della democrazia di un grande Paese lo si misura attraverso vari fattori. Tra questi, per una potenza occidentale come l’Italia, ci sono i diritti di cui godono i suoi cittadini, il sistema della giustizia e le condizioni delle carceri. Temi al centro del dibattito politico attuale, sui quali evidentemente c’è ancora molto da fare. Ne abbiamo parlato con Irene Testa, storica esponente e tesoriere del Partito Radicale, nonché prima Garante dei diritti dei detenuti in Sardegna.
Ad Ilaria Salis sono stati negati i domiciliari, per cui rimarrà in cella a Budapest. Il caso ha colpito molto l’opinione pubblica, come testimonia anche la vicinanza espressa dal presidente Mattarella.
«Ho avuto modo di incontrare il padre di Ilaria nelle scorse settimane qui a Cagliari durante una manifestazione. La mancata concessione dei domiciliari è sicuramente un duro colpo per la famiglia. Ma credo che questa vicenda dovrebbe essere uno stimolo per far luce sugli oltre duemila italiani detenuti all’estero. Bisognerebbe introdurre una Carta penitenziaria europea, che stabilisca dei criteri validi per tutti i Paesi, proprio per evitare che avvengano situazioni e comportamenti del genere. D’altronde già nel 2014 l’Ungheria era stata ammonita dal Consiglio d’Europa sul fronte dei diritti umani».
Il tema delle carceri e della giustizia, dunque, dovrebbe essere una delle priorità della nuova Unione europea?
«Dovrebbe essere al centro dell’agenda sia per la politica europea che per quella del nostro Paese. Se ne parla poco e soprattutto c’è una forte indifferenza di fronte al grido di disperazione che proviene da quei luoghi. Basti pensare al dramma dei suicidi nelle carceri italiane: non si è mai indagato a fondo sulle cause e non vengono avanzate delle soluzioni. Il 2024 è finora un anno nero in tal senso, con in media un suicidio ogni due giorni. Questo è un aspetto che scuote le coscienze di molti: bisognerebbe partire da qui per portare avanti una riforma a 360 gradi delle carceri e della giustizia, che sono strettamente collegate. Basti pensare che in Italia abbiamo diverse migliaia di persone in carcere in attesa di giudizio, e 90mila che sono “liberi sospesi”».
Cosa si intende?
«Sono soggetti che hanno pene inferiori ai quattro anni e sono in attesa di una misura alternativa al carcere, ma a causa dei ritardi della giustizia restano in un limbo per anni in attesa della decisione dei Tribunali di sorveglianza. Potenzialmente, quindi, possono rientrare in carcere. Parliamo di 90mila persone che nel frattempo si sono fatte una famiglia e una vita lavorativa. Hanno avuto una condanna anche diversi anni fa, ma sono in stato di libertà, aspettando una decisione del Tribunale. Eppure se ne parla molto poco».
Quali sono le altre storture del nostro sistema carcerario?
«Se ne sa poco anche, ad esempio, del fatto che ci sono tantissime persone con pene inferiori ai tre anni, e che quindi potrebbero usufruire delle misure alternative. Ci sono poi molti che dovrebbero uscire dal carcere, ma ci restano per diversi mesi in più perché mancano il personale e gli assistenti sociali, per cui non vengono fatte le relazioni di sintesi del detenuto necessarie al magistrato per concedere una misura alternativa. Tutte persone che affollano i nostri penitenziari e che invece non dovrebbero neanche starci».
Quali sono a suo avviso le urgenze di questo settore, per far sì che nelle nostre carceri venga garantito lo Stato di diritto?
«I temi sono molti. Una delle priorità è ad esempio il fatto che la popolazione carceraria è prevalentemente malata, tra tossicodipendenti, che dovrebbero stare nelle comunità di recupero, e soggetti psichiatrici. Sono persone che andrebbero accudite e accompagnate, ma all’interno delle carceri non si riesce a seguirli. Molti di questi sono i ragazzi che poi finiscono per suicidarsi. Tanti detenuti hanno più patologie, spesso sviluppate a causa dell’abuso di sostanze. Troviamo in cella persone con disturbo bipolare, borderline, schizofrenico. Alla base c’è anche il fallimento di tutti i servizi sul territorio. Ai nostri detenuti non viene data la possibilità di fare alcun tipo di attività, e soprattutto di reinserirsi nel mondo del lavoro. Spendiamo ogni anno milioni di euro, senza avere nulla in cambio, perché li teniamo a oziare su una branda. Manca completamente l’aspetto rieducativo della pena, in aperto contrasto con l’articolo 27 della Costituzione».
A chi sono da attribuire le colpe?
«In primis alla politica, che da decenni dimostra di avere poco coraggio e non interviene con misure efficaci, per prevenire le emergenze. Quei piccoli tentativi fatti finora si sono rivelati insufficienti, perché non erano nel contesto di una riforma strutturale, che coinvolga anche il sistema della giustizia».
Lei visita spesso le carceri italiane. Quali sono le storie che la colpiscono di più, anche dal punto di vista umano?
«Spesso mi arrabbio quando visito le sezioni di transito o di isolamento. Lì si trovano quei detenuti più fragili, che hanno disagi psichiatrici e sono ad alto rischio suicidario. Per tutelare la loro incolumità vengono messi in celle in cui non c’è praticamente niente, se non un letto, spesso senza un materasso, e sono costretti a mangiare per terra. Non è possibile tenere delle persone in queste condizioni. Anche perché non dovrebbero stare lì, ma in strutture che garantiscano il diritto alla salute. Le responsabilità non possono neanche ricadere sul direttore o lo psichiatra che li mette in carcere, perché altrimenti dovrebbero fargli un Tso alla settimana. Ho visto in questi reparti detenuti che si strappavano l’unghia del piede o che urinavano nella cella. Ho visto l’inferno. Bisogna anche pensare a chi lavora in certe sezioni: non è un caso che molti agenti di polizia penitenziaria finiscano purtroppo per togliersi la vita. Sono completamente abbandonati».
Lei è stata da sempre molto vicina a Beniamino Zuncheddu, l’ex allevatore che ha trascorso oltre 30 anni in carcere da innocente dopo essere stato condannato per un triplice omicidio del 1991, per poi essere assolto. Si è diffusa la notizia che gli sarebbe stato riconosciuto un risarcimento di 30mila euro.
«Materialmente non ha ricevuto ancora neanche un euro. Il suo avvocato aveva presentato un ricorso perché Beniamino aveva trascorso diversi anni in situazioni di sovraffollamento delle carceri, costretto a celle molto piccole. Già da qualche mese sapevamo del riconoscimento di questi 30mila euro, ma ancora non c’è stato. Al momento lui vive grazie all’aiuto della sorella Augusta. Questa è la vera ingiustizia: si tratta di un uomo a cui sono stati rubati gli anni migliori della sua vita, e lo Stato dopo un errore del genere, anziché prevedere un automatismo nel risarcimento, se la prende comoda. Ancora non ci sono neppure le motivazioni della sua sentenza di assoluzione, per cui non si può fare la richiesta di risarcimento danni. Parliamo di una persona di 60 anni. Nessuno gli ridarà quello che gli è stato tolto, ma che senso avrebbe un ristoro che magari arriverà fra 6-7 anni? Nessuno, soprattutto, ha ammesso le proprie colpe e chiesto scusa. Questo è il fallimento della giustizia italiana, non una vittoria, dopo una gogna di 33 anni. Purtroppo quella di Beniamino non è una vicenda isolata, visto che registriamo un migliaio di ingiuste detenzioni ogni anno. C’è qualcosa che non funziona».
Come si combatte questa malagiustizia?
«Servirebbero tanti interventi. Ad esempio nella fase delle indagini preliminari, dove maggiormente avvengono errori, magari per superficialità. O ancora sulle intercettazioni. Dobbiamo ricordarci che la giustizia può colpire tutti, dal povero al ricco. Quando si tratta di politici o persone note, si rischia di finire in una gogna mediatica che può distruggere intere carriere. Dall’altra parte la persona comune non ha i mezzi per gridare la propria innocenza, come nel caso Zuncheddu. Per difenderci da certa giustizia servono ingenti risorse economiche, e non tutti hanno questa possibilità. Per non parlare del carico di stress. Non conosco un cittadino italiano che è contento di questa giustizia. Molte persone preferiscono evitare di fare le cause, pur di non doversi indebitare e stare per anni dietro a un processo».
Uno dei primi casi emblematici di malagiustizia, anche dal punto di vista mediatico, fu quello che coinvolse Enzo Tortora.
«Chiediamoci cosa è cambiato da allora: i magistrati che sbagliano continuano a non pagare, il Parlamento continua a non legiferare. L’unico strumento a disposizione dei cittadini per modificare le cose sono i referendum, ai quali però su questi temi non viene data la giusta visibilità. Ricordo che il Partito Radicale fu promotore del cosiddetto Referendum Tortora sulla responsabilità civile dei magistrati. Nonostante il chiaro voto degli italiani a favore, il Parlamento ne stravolse l’esito con la legge Vassalli, che prevedeva che fosse lo Stato a pagare al posto dei giudici. Viviamo in un Paese in cui regna l’immobilismo».
Quali sono allora le urgenze prioritarie nel settore della giustizia?
«Un provvedimento utile per smaltire questa mole di processi è l’amnistia. Non viene fatta da oltre 30 anni, nonostante sia prevista dalla Costituzione. Sarebbe una scelta saggia in una fase emergenziale come quella attuale. Si potrebbero poi prevedere degli automatismi, ad esempio per concedere direttamente le misure alternative a chi ne ha diritto, senza affollare per mesi le carceri».
Il Governo Meloni sta portando avanti la sua riforma della giustizia, che ha tra i punti chiave la separazione delle carriere dei magistrati. Può essere una misura utile?
«Dal ministro Nordio ci si aspettava tanto. La separazione delle carriere va sicuramente fatta, ma ancora mi sembra che siamo in alto mare, perché viene costantemente rinviata».
Che ne pensa della possibilità di introdurre test psicoattitudinali per i magistrati?
«Non vedo perché non dovrebbero farli: con i loro giudizi hanno nelle mani le vite delle persone. Ma ogni volta che si tenta di riformare questo settore, la magistratura fa le barricate».
Torniamo al dramma dei suicidi in carcere. Come bisognerebbe intervenire?
«Il punto è migliorare la situazione nelle carceri. Non possiamo pensare di tenere il disagio psichiatrico chiuso in una cella, ce lo ha insegnato Basaglia. Servono meno persone e più personale nei penitenziari. Fornire dei trattamenti, ad esempio per il recupero dei tossicodipendenti. Invece lasciamo i detenuti chiusi, a deprimersi e a trovare il modo per ammazzarsi, magari usando un laccio delle scarpe. Questo è il fallimento dello Stato. Nessuno pensa che debbano essere lasciati liberi, ma la sicurezza la si garantisce rieducando e riabilitando queste persone. Altrimenti quando escono saranno uguali a quando sono entrati in carcere, anzi più poveri e più soli».
Lei è la Garante dei diritti dei detenuti in Sardegna. Quali sono state le sue prime azioni?
«In primis ho visitato l’istituto minorile di Quartucciu: una situazione indecente, in una struttura non a norma, decadente. Dopo le mie denunce, sono iniziati i lavori per la sua ristrutturazione, anche se personalmente avrei preferito costruire un istituto nuovo. In generale bisognerebbe superare gli istituti minorili, puntando sul futuro di questi giovani. La politica deve capire che la sfida è recuperare il minore, non affollare gli istituti. Bisogna anche tenere conto del contesto di disagio da cui provengono molti di questi ragazzi: tanti hanno un futuro segnato. Per questo l’obiettivo non deve essere tanto quello di punirli, ma riabilitarli. Mi sono anche occupata del caso di una persona affetta da picacismo, che da 16 anni viene tenuta in un centro, legata e con un casco in testa, perché la sua patologia lo porterebbe a mettere in bocca qualunque cosa. Gli deve essere ridata la libertà, garantendo un’assistenza straordinaria».
Tra i suoi temi di interesse c’è quello delle proteste delle donne in Iran. A livello mediatico ultimamente se ne parla molto meno. Qual è la situazione attuale?
«L’attenzione è calata anche a livello istituzionale. Sarebbero serviti interventi coraggiosi da parte dell’Unione europea per cercare di arginare il regime iraniano, ad esempio pesanti sanzioni economiche per i pasdaran. L’Iran è una potenza che incute paura, anche per il ricatto del nucleare e per il suo ruolo geopolitico. Per questo le misure messe in atto dall’Europa sono state molto timide. Alla fine queste donne non chiedono altro che la possibilità di vivere libere, come poter cantare o passeggiare con il proprio compagno. Il regime attua un controllo costante, arrivando a torturare, stuprare e impiccare chi protesta. Purtroppo questo popolo è stato lasciato solo. E non abbiamo neppure tutelato quelle ragazze che sono andate via da lì e sono venute nel nostro Paese, perché erano costrette a recarsi in ambasciata per il rinnovo del passaporto: molte di loro sono poi state rispedite in Iran e incarcerate».
Lei è una storica militante e tesoriere del Partito Radicale, che nel corso della sua storia si è sempre battuto per i diritti.
«Il Partito Radicale è stato forse l’unico che è riuscito davvero a fare le più grandi riforme nel nostro Paese, che hanno cambiato la vita dei cittadini, come il divorzio e l’aborto, ma anche la chiusura dei manicomi e le battaglie sulla giustizia. È un partito che non pensa tanto al risultato elettorale, ma punta ad essere incisivo sui diritti umani. Marco Pannella ci ha insegnato il metodo radicale della lotta politica: bisogna combattere per le battaglie in cui si crede, senza accontentarsi. È evidente che quando prendi posizioni molto forti poi lo paghi caro in termini di isolamento. Penso invece che il Partito Radicale meriterebbe molta più attenzione. Di certo oggi una figura come quella di Pannella manca parecchio».