La vera storia di cappuccetto rosso Bonaccini e del lupo di Rignano
Vedi alla voce Partito democratico, dopo la grande provocazione del governatore dell’Emilia Romagna: “Non possiamo restare al 20 per cento! Così il Pd non vince! Sia Renzi che Bersani dovrebbero rientrare nel partito”. Il nome del problema non è Stefano Bonaccini: il nome del problema è Matteo Renzi. La sortita del governatore dell’Emilia Romagna ha aperto un dibattito e ha suscitato ogni tipo di reazione, da quelle critiche di Francesco Boccia, a quelle politicamente strutturate di Andrea Orlando, a quelle ironiche di Italia Viva: “Perché non vieni tu?”, a quelle infastidite di Arturo Scotto di Articolo 1: “Ricordo che noi siamo usciti per colpa di Renzi”. Sottointeso: non abbiamo nessuna voglia di rientrare con lui, dato che è lui il motivo del disagio che ci ha portato ad uscire.
Ma il punto è che nella solita ubriacatura mediatica sembra sfuggire a molti è che il problema non è Bonaccini, che nel nuovo look da leader barba & Rayban pare seriamente impegnato a sfatare il peso di un celebre adagio Togliattiano (“Agli emiliani mai nessun ruolo apicale solo organizzazione e salamelle”). Il punto è che in questa spericolata ipotesi a somma zero, in cui Bersani e Renzi finiscono per essere equiparati come patate, si perde totalmente il senso dell’identità e della storia recente. Bonaccini è fantastico quando dice a Zingaretti: “Il Pd non può restare al 20 per cento!”, ma sembra dimenticarsi che Renzi quel partito lo aveva lasciato al 18 per cento in condizioni di para-rottamazione, isolato, odiato e vinto. E forse dimentica anche che nelle ultime elezioni in cui si sono raccolti voti veri il Pd di Nicola Zingaretti era arrivato al 22,7 per cento, (prima di subire quella che io chiamo “la scissione del Poltrona-virus“).
La mattina del giuramento del governo i renziani erano a giurare da ministri, dopo aver patteggiato (con la comoda maglia del partitone sulle spalle) e la sera dopo entravano in ufficio con il nuovo simbolo di Italia Viva. Roba da far rimpiangere il candore etico di Clemente Mastella, che almeno nel suo dichiarato poltronismo vedeva una sublimazione dell’iperpolitica. Il problema – al dunque – non sono la sinistra di Pierluigi Bersani, di Stefano Fassina o di Massimo D’Alema che – ricordiamolo agli agnellini renziani di oggi – furono cacciati dal partito “Leopoldino” a pesci in faccia. Il problema è la destra renziana, che dopo aver ruggito nei panni del lupo, quando era al potere, adesso si finge cappuccetto rosso, quando il potere non lo ha più. La stessa destra di Renzi che, con l’eccezione di due candidati, in queste regionali corre ovunque contro il Pd per farlo perdere, e si vanta, come fa la povera Maria Elena Boschi di essere “Contro l’alleanza strutturale con il M5s”. Traduzione: tutto bene quando c’è da spartire, ma ognuno per se, quando si tratta di prendere.
E in questa campagna elettorale, da questi esponenti di Italia Viva il Pd di Zingaretti viene dipinto come la sentina di tutti i mali, un partito conservatore ed estremista. Ma se questa è la casa da cui i probi renziani sono dovuti scappare, perché adesso hanno tutta quest’ansia di tornarci? Semplice: perché non battono chiodo, e perché tutti i sondaggi dicono che il candidato che si sono scelti loro (il mitico Giani, nella fortezza Toscana) è uno di quelli che più rischia di perdere. Perché a livello nazionale sono addirittura stimati al di sotto la soglia di sbarramento.
C’è dunque in questo dibattito rachitico e privo di ogni afflato, una verità che nessuno sembra voler dire: Renzi non è un modo per “tornare sopra il 20 per cento”, come vagheggia Cappuccetto rosso Bonaccini quando parla con il suo lupo di Rignano, ma un modo sicuro per far affondare il partito che si è rimesso in piedi. Il Pd era all’opposizione e al 18 per cento, e oggi è al 22 per cento e al governo. Una bella differenza: -“Che bocca grande che hai!”. – “Per mangiarti meglio, Stefanuccio bello”.
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