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Bruno Bottai: l’eloquenza del silenzio

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Esattamente 10 anni fa, il 2 novembre 2014, moriva Bruno Bottai, l’ultimo gigante della diplomazia italiana del XX secolo. Con la sua scomparsa si è chiusa, in modo probabilmente irreversibile, un’epoca nella quale il peso del ruolo d’Ambasciatore d’Italia era non solo qualitativamente rilevante ma, in alcuni casi, imprescindibile. Figlio terzogenito di Giuseppe Bottai, ministro prima delle Corporazioni e, successivamente dell’Educazione Nazionale, noto soprattutto come firmatario insieme a Galeazzo Ciano e Bruno Grandi dell’ordine del giorno che portò alla caduta di Benito Mussolini, Bruno nacque a Roma il 30 luglio 1930.

Le vicende paterne ebbero un forte peso sugli anni difficili della sua adolescenza quando, con il padre in clandestinità, dovette, giovanissimo, assumere il ruolo di capofamiglia, seppur con la pacatezza e il distacco che sono stati per tutta la sua vita il suo marchio di fabbrica. Il nipote, Angelo Polimeno Bottai narra questo spaccato che da bene la misura del modus operandi di suo zio: “Anche in famiglia, non solo alla Farnesina, Bruno era considerato il segretario generale. Parlava poco: più con lo sguardo che con le parole. Raramente alzava la voce. E quando succedeva lasciava indelebilmente il segno. Un giorno, avevo 12 anni, mi sorprese a canticchiare Faccetta Nera. Forse l’avevo ascoltata in televisione o al cinema, non sapendo bene cosa rappresentasse. Mi riprese severamente ricordandomi che quella canzone apparteneva a un’epoca in cui non esisteva la libertà, conclusasi con una guerra folle in cui erano morti tanti italiani. Sono ammutolito. Lui ha tolto lo sguardo sui miei occhi senza aggiungere altro. Non ce n’era più bisogno.”

Laureatosi in Giurisprudenza nel 1954, Bottai iniziò una carriera diplomatica che lo vide protagonista a Bruxelles, dal 1958 al 1961, del processo di consolidamento della neonata Comunità Europea per poi approdare nel 1970 a Palazzo Chigi in qualità di consigliere diplomatico del Presidente del Consiglio, Emilio Colombo. Da ambasciatore presso la Santa Sede, alla fine degli anni settanta, fu uno degli ispiratori della Revisione del Concordato del 1929. Nell’agosto 1987, dopo due anni come rappresentante italiano presso la Corte di San Giacomo, assunse la carica di Segretario Generale del Ministero degli Esteri, che tenne fino a inizio 1994, per poi chiudere la carriera nuovamente presso il Vaticano.

L’ambasciatore, tuttavia, era molto più di questo curriculum ragguardevole, come ci spiega Giampiero Massolo, suo discepolo nonché Segretario Generale della Farnesina dal 2007 al 2012: “Bruno Bottai aveva un modo molto particolare di rapportarsi con la realtà, per difendersi dalla quale creava uno strato di distacco, così da non venirne sopraffatto. Una sera, alla Direzione degli Affari Politici, un giovane funzionario appena entrato, il sottoscritto, ricevette una telefonata affannata del suo capo ufficio in cui mi si ordinava di portare al Vicedirettore – l’onnipotente Bottai – un telegramma urgentissimo. Di corsa mi diressi al suo ufficio per comunicargli la cosa. Lo trovai divertito, già al corrente di tutto. M’invitò, in futuro, a usare la testa, imparando a distinguere tra urgenze e priorità e, soprattutto, a non prendere mai nulla per oro colato.”

Nell’aprile 1995 Bottai diventò presidente della Società Dante Alighieri, l’ente fondato da Giosuè Carducci nel 1889 che promuove la lingua italiana nel mondo. Al suo fianco, in qualità di segretario dell’organizzazione, volle un giovane storico dell’arte, Alessandro Masi, con il quale diede vita a un lungo connubio virtuoso. Masi, di questo lungo periodo dorato, conserva un ricordo nitido: “Ho condiviso con l’Ambasciatore più di 20 anni di lavoro alla Dante. Di lui mi resterà sempre impressa l’aristocratica posa di gentiluomo prestato ai doveri dello Stato. Austero nei modi, come pure nella sostanza, amava le piccole cose della vita con un atteggiamento anticonformista insospettabile ai più, convinti che a un diplomatico fosse precluso di gustare il colore tenue di una rosa, le sfumature d’una foglia, i vapori della natura in autunno, una poesia, un’opera d’arte. Immancabilmente, iniziava i suoi incontri con un Evviva per concluderli, in modo dolcemente perentorio, con un Bene.

A conferma delle sue qualità eccezionali, la carriera di Bruno Bottai ha continuato a prosperare ben oltre il pensionamento diplomatico. Nel 1999 fu eletto alla guida della prestigiosa Fondazione Balzan. Inoltre, già dal 1987, al suo rientro da Londra, aveva assunto la presidenza onoraria della minuscola Associazione Italiana Cricket, sport del quale lui, primo tra tutti, aveva intuito l’immenso potenziale integrativo nell’Italia del terzo millennio. Fu proprio in questo ruolo, apparentemente marginale, che diede sfoggio delle sue immense capacità di visione futura. Il primo dicembre 1995, l’AIC festeggiava il suo 15° compleanno in coincidenza con il riconoscimento da parte della federazione internazionale. Fu in questo contesto festoso che l’ambasciatore sorprese tutti i presenti con una affermazione a dir poco profetica: “Il cricket – sentenziò – giocherà un ruolo decisivo negli anni a venire nel processo d’integrazione che è in atto nel nostro Paese.” Come sempre, aveva capito tutto con largo anticipo.

Sommo maestro nella desueta arte dell’ascolto, con i suoi eloquenti silenzi ti costringeva a riflettere se avevi detto qualche stupidaggine. Si esprimeva con un bon ton tutto suo in cui l’essere perplessi era indice di negatività e il non essere contrari era segnale d’assenso. Sicuramente, Bruno Bottai era un uomo d’altri tempi che male avrebbe digerito l’attuale tendenza d’anteporre proclami altezzosi, quasi sempre preludio al nulla, alla silenziosa operatività che ha caratterizzato tutta la sua vita.
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