“I partiti non fanno più politica”: la storica intervista di Berlinguer a Scalfari sulla Questione Morale
Roma, 28 luglio 1981. Ci sono opinioni che fanno esplodere polemiche a caldo, e altre che fanno discutere per anni: la celebre intervista di Eugenio Scalfari a Berlinguer sulla questione morale ha prodotto entrambi i risultati. Fece imbufalire i socialisti e Bettino Craxi, lasciò sgomento Giorgio Napolitano («Ero incredulo. Lessi la Repubblica e telefonai a Gerardo Chiaromonte: “Hai visito cosa dice?”»). Rese orgoglioso Eugenio Scalfari: «In quei giorni Berlinguer aveva dato tanti segnali diversi, e tanti messaggi pollici di rottura: aveva rotto l’alleanza con la Democrazia Cristiana, aveva lanciato la proposta dell’Alternativa, aveva detto non solo che bisogna incaricare un presidente del Consiglio “non democristiano” ma anche che, ritornando alla lettera della Costituzione, bisognava liberarlo dal giogo dei partiti. Ma io che ritenevo di conoscerlo molto bene, sapevo che c’era qualcos’altro che andava detto, qualcosa che nella sua testa era a monte di tutti questi ragionamenti, e che mi sembrava importante da esplicitare». Aggiunge Scalfari, ricordando quel giorno: «Mi accorsi subito, mentre la rileggevo in pagina, che la portata di quel testo avrebbe trasceso la cronaca politica, il clima in cui era stato concepito». Intervista profetica, si è detto. E l’aggettivo non è di sicuro esagerato: la denuncia del degrado della Prima Repubblica e dei partiti di Berlinguer è in anticipo di dieci anni su Mani Pulite. Di seguito un estratto di quel colloquio tra Scalfari e l’allora segretario del Pci (la versione integrale dell’intervista è diventata un libro, La questione morale, pubblicato da Aliberti Editore, 105 pagine, 9,50 euro).
«I partiti non fanno più politica», disse Berlinguer. «Politica si faceva negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del Paese e di interpretarla […]».
Oggi non è più così?
«Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia. La passione è finita? […] Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora…».
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
«È quello che io penso».
Per quale motivo?
«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti».
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
«E secondo lei non corrisponde alla situazione?».
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del Paese da un pezzo. Allora delle due l’una: o gli italiani hanno, come si suol dire, la classe dirigente che meritano, oppure preferiscono questo stato di cose degradato all’ipotesi di vedere il Partito comunista insediato al governo e ai vertici del potere. Che cosa è dunque che vi rende così estranei o temibili agli occhi della maggioranza degli italiani?
«La domanda è complessa. […] Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti.
Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al Nord come al Sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Non nego che, alla lunga, gli effetti del voto referendario sulla legge 194 si potranno avvertire anche alle elezioni politiche. Ma è un processo assai più lento, proprio per le ragioni strutturali che ho indicato prima. C’è dunque una sorta di schizofrenia nell’elettore. Se vuole la chiami così. In Sicilia, per l’aborto, quasi il 70% ha votato “no”, ma poche settimane dopo il 42% ha votato Dc. Del resto, proprio nel caso della legge sull’aborto, a parte le dichiarazioni ufficiali dei vari partiti, chi si è veramente impegnato nella battaglia per il “no” sono state le donne, tutte le donne, e i comunisti. Dall’altra parte della barricata, il Movimento per la vita e certe parti della gerarchia ecclesiastica. Gli altri partiti hanno dato, sì, le loro indicazioni di voto, ma durante la campagna referendaria non li abbiamo neppure visti, a cominciare dalla Dc. E la spiegazione sta in quello che dicevo prima: sono macchine di potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere: seggi in Comune, seggi in Parlamento, governo centrale e governi locali, ministeri, sottosegretari, assessorati, banche, enti. Se no, non si muovono. E quand’anche lo volessero, così come i partiti sono diventati oggi, non ne avrebbero più la capacità».
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