Autostrade, i pedaggi aumentano per arricchire i fondi
Dietro i rialzi dei pedaggi di Aspi ci sono gli accordi fatti dai governi Conte 2 e Draghi che garantiscono a Blackstone e Macquarie profitti a colpi di rialzi delle tariffe
C’è poco da stupirsi se dallo scorso primo gennaio i pedaggi di Autostrade per l’Italia sono aumentati del 2% e dal prossimo primo luglio schizzeranno su di un ulteriore 1,34%. Il via libera ai rincari arrivato nelle ultime ore del 2022 dal Governo Meloni – e in particolare dai ministri leghisti Salvini (Infrastrutture) e Giorgetti (Economia) – non è altro che la prevedibile conseguenza degli accordi siglati dai due precedenti esecutivi, che hanno di fatto caricato sulle spalle degli automobilisti il peso economico dell’operazione di acquisto di Autostrade da parte del consorzio Hra, costituito da Cassa Depositi e Prestiti e dai fondi stranieri Blackstone e Macquarie.
Due anni fa, nell’ottobre 2020, l’Autorità garante di regolazione dei trasporti (Art), chiamata a valutare il Piano economico finanziario di Autostrade per l’Italia (Aspi), aveva suggerito un incremento delle tariffe annuo «limitato a +1,08% calcolato rispetto al capitale investito netto proposto dal concessionario». Ma si trattava solo di un parere consultivo, non vincolante. E infatti è rimasto inascoltato.
Prima il Governo Conte Bis (con i ministri De Micheli e Gualtieri) e poi quello guidato da Mario Draghi (con Giovannini e Franco) hanno avallato un piano che prevede di alzare i pedaggi in misura ben maggiore: in media dell’1,61% all’anno per l’intera durata della concessione, ossia fino al 2038.
Questi rincari servono non solo a coprire 13,6 miliardi di euro di investimenti che Aspi si è impegnata a effettuare nei prossimi anni, ma anche a pompare ricchi guadagni per i suoi nuovi proprietari. Ai quali sono stati garantiti un tasso di remunerazione del 13,87% e una pioggia di dividendi, il primo dei quali – da 682 milioni di euro, corrispondente all’utile netto della società – è stato già staccato lo scorso luglio.
Del resto, come ha rivelato Giorgio Meletti sul Domani, al punto 6.5.1 dei patti parasociali interni al consorzio Hra c’è scritto che Autostrade deve distribuire «ai rispettivi soci, su base semestrale, la cassa disponibile risultante dal bilancio di esercizio». Tradotto: ogni euro di utile netto finirà direttamente nelle tasche degli azionisti senza alcun accantonamento. Altro che la tanto sbandierata «nazionalizzazione».
Ma c’è poco da stupirsi, appunto. Se due tra i più importanti fondi infrastrutturali del mondo come Blackstone e Macquarie hanno deciso di investire complessivamente 4 miliardi di euro in Aspi, accollandosi il suo debito da 8 miliardi, nonché i 3,4 miliardi di misure compensative per il crollo del Ponte Morandi, non è certo per opera di beneficenza, ma perché evidentemente sono sicuri che l’operazione si rivelerà per loro estremamente profittevole. E a pagare il conto, dunque, saranno gli automobilisti ogni volta che varcheranno il casello.
L’amministratore delegato di Autostrade, Roberto Tomasi, ci aveva provato già la scorsa estate, chiedendo al governo di rivedere le tariffe dell’1,5%. I tempi si sono poi allungati, fino all’annuncio di inizio anno, con la stangata del 3,34% (che somma il 2% del primo gennaio e l’1,34% previsto per luglio). Il ministro Salvini ha respinto le critiche sostenendo che «è stato scongiurato un aumento che sfiorava il 5%».
Le cose stanno così: i rialzi sui pedaggi erano sospesi dal 2018, anno del disastro di Genova; sommando le mancate rivalutazioni negli anni 2021 e 2022 (complessivamente +3,12%) e l’incremento previsto per il 2023 (+1,59%) si produceva un rincaro potenziale del 4,76%; ma ecco che applicando uno sconto dell’1,35%, si è arrivati alla definizione del famigerato 3,34%.
Peraltro, esaminando il piano tariffario di Aspi, l’Autorità dei Trasporti ha alzato un sopracciglio ed evidenziato un paio di incongruenze che potrebbero avvantaggiare la società a scapito sempre dei suoi clienti, ovvero gli automobilisti. «Con riferimento al calcolo della componente tariffaria di gestione», si legge in un parere pubblicato lo scorso novembre, l’Art ritiene «necessario che il concessionario provveda alla rettifica delle formule di calcolo erroneamente utilizzate».
In particolare, secondo il Garante, Autostrade ha sbagliato a utilizzare come riferimento per fissare le tariffe il traffico medio degli anni 2020-24: avrebbe dovuto basarsi sul traffico specifico di ciascun anno. Ciò, secondo l’Autorità, determinerebbe nel 2024 un aumento dei pedaggi superiore al dovuto, che si tradurrebbe in un «maggior ricavo per il concessionario» quantificato in 180 milioni di euro.
Inoltre, osserva l’Art, «l’applicazione di una tariffa linearizzata sull’intero periodo residuo di vigenza della concessione deve essere attentamente rivalutata rispetto alla effettiva attuabilità degli investimenti da realizzare da parte del concessionario: la tariffa lineare incorpora, infatti, anche la remunerazione degli investimenti futuri e, nel caso di mancato rispetto dei tempi di realizzazione e/o variazioni degli importi degli investimenti, potrebbe determinare una anticipazione tariffaria implicita a vantaggio del concessionario».
E così, a più di quattro anni dal cedimento del Morandi, siamo ancora al punto di partenza, con la gestione di Autostrade per l’Italia affidata a soggetti privati affamati (del tutto legittimamente) di profitto: il riferimento è evidentemente ai fondi Blackstone e Macquarie e non alla partecipata pubblica Cdp, che è formalmente socio di maggioranza ma il cui potere effettivo è limitato dal diritto di veto degli altri azionisti.
E per giunta, a dispetto delle iniziali promesse di revoca della concessione, i precedenti gestori, la famiglia Benetton, sono stati accompagnati alla porta sgravati da qualsiasi onere per il crollo del ponte e con un assegno da ben 8 miliardi di euro che ha finito per impreziosire il valore della loro holding Atlantia, sulla quale hanno poi esercitato un’Opa proprio insieme alo stesso fondo Blackstone.
Insomma, la manovra di riassetto di Aspi, che si è trascinata per tre anni attraverso tre diversi governi, ha arricchito chi l’ha venduta (i Benetton) e garantirà ricchi guadagni a chi l’ha comprata (i fondi internazionali). A metterci i soldi, come sempre, saranno gli automobilisti sotto forma di pedaggi sempre più cari. Davvero non c’era un modo migliore per estromettere i Benetton dal controllo di Autostrade?
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