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“L’autonomia differenziata? È la secessione dei ricchi: vi spiego perché”

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Credit: AGF

“Col ddl Calderoli si creerebbero delle Regioni-Stato. Diventeremmo un Paese arlecchino. Con politiche pubbliche decise qua dal governatore e là dallo Stato. E passerebbe il principio per cui chi vive in una terra più agiata ha diritto a servizi migliori”. Intervista a Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata al Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari, autore di "Contro la secessione dei ricchi" (Laterza)

Professor Viesti, nel suo libro definisce l’Autonomia regionale differenziata una «secessione dei ricchi». Ci spieghi.
«È così per due motivi. Il primo è che la dimensione delle competenze che la riforma consente di trasferire alle Regioni è simile a quella di uno Stato sovrano. Si verrebbero a costituire delle vere e proprie Regioni-Stato all’interno dello Stato: per questo parlo di “secessione”. E sarebbe una secessione “dei ricchi” perché sono state le tre Regioni più ricche del Paese – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – ad aver chiesto per prime quei poteri».

Questo è il primo motivo. E il secondo?
«Glielo spiego subito. Oltre a quei poteri, Veneto e Lombardia chiedono anche risorse finanziarie. E cercano di ottenere dei meccanismi di finanziamento simili a quelli delle Regioni a statuto speciale. Di fatto è un tentativo di “secedere” dalle regole nazionali del federalismo fiscale. Ed è un tentativo che si basa sull’ipotesi che un territorio più ricco meriterebbe più servizi. Ecco perché, anche da questo punto di vista, sarebbe una secessione “dei ricchi”».

Il ragionamento è: se consentiamo a tutte le Regioni di prendersi più poteri, le Regioni che oggi sono più ricche se ne prenderanno di più, allargando ulteriormente il divario con le Regioni più povere.
«Sì, ma non è questo a mio avviso il punto principale. Il punto principale è sulle materie: se ciascuna Regione chiedesse poteri autonomi su certe materie, avremmo politiche pubbliche gestite in maniera differente a seconda dei territori. Diventeremmo un Paese arlecchino, come non c’è da nessuna parte nel mondo. Fra l’altro, anche se non sono un costituzionalista, credo che si porrebbero anche problemi di costituzionalità, perché applicando l’articolo 116 della Costituzione si cambierebbe l’articolo 117 senza passare per la procedura speciale prevista dall’articolo 138».

Quali sono le materie che secondo lei non dovrebbero essere lasciate alle Regioni?
«Ad esempio la politica energetica, o quella delle reti infrastrutturali di trasporto. O l’istruzione. Poi ci sono le norme generali sulla sanità, che con l’Autonomia differenziata potrebbe essere totalmente regionalizzata. Non sono il solo a pensarla così: anche secondo la Banca d’Italia è dubitabile che le Regioni siano più efficienti dello Stato nella gestione di tutte quelle competenze. Il principale effetto di questa riforma sarebbe concedere un immenso potere ai presidenti di Regione, ma per i Comuni e i cittadini di quelle stesse Regioni non è affatto detto che la situazione migliorerebbe». 

La riforma Calderoli subordina però la concessione dell’autonomia alla definizione dei Lep, i livelli essenziali di prestazione: sull’intero territorio nazionale bisognerebbe garantire dei livelli minimi di qualità nell’erogazione dei servizi. Sappiamo che i Lep attendono di essere definiti da diversi anni, ma questa non potrebbe essere la volta buona?
«Siamo un Paese straordinario: nessuno ricorda che già in base al Pnrr abbiamo l’obbligo di definire i Lep in tutte le materie, che siano di competenza statale, regionale o comunale. Quindi legare il processo di definizione dei Lep all’Autonomia differenziata è una mossa politica. Non solo: la legge si applica unicamente alle funzioni statali che vengono trasferite alle Regioni e non dispone stanziamenti ulteriori, quindi il rischio è che, alla fine di un processo lungo e molto complesso, la definizione dei Lep si risolva in una mera fotografia dell’esistente. Lo dice anche l’Ufficio parlamentare di bilancio. E aggiungo un’annotazione: la Calderoli è una legge ordinaria, non ha carattere costituzionale; basterebbe una legge successiva per modificarla».

Osservazione storica: fino a 163 anni fa, eravamo un Paese diviso in tanti piccoli “staterelli”. E ancora oggi dall’Alto Adige alla Sicilia ogni territorio ha caratteristiche ed esigenze diverse. Non basta questo per riconoscere maggior autonomia alle Regioni?
«Questo è un argomento a favore del decentramento dei poteri, cioè a favore del fatto che, ad esempio, su una specifica materia le scelte che si fanno in Sicilia sono diverse da quelle che si fanno in Lombardia. E io sono molto favorevole a questo decentramento, sia a livello di Regioni sia – ancor più – a livello di Comuni. Ma con l’Autonomia differenziata si parla di una cosa diversa. E cioè del fatto che in una Regione quella politica sia decisa dalla Regione e in un’altra Regione sia decisa dallo Stato: non è una sana differenziazione delle scelte, ma una differenziazione dei poteri».

Quindi decentramento sì, ma Autonomia differenziata no.
«In un Paese così ricco di differenze come l’Italia non si può pretendere di decidere da Roma se, ad esempio, nel centro di Bologna le auto devono andare a 30 o a 50 chilometri all’ora. È una scelta che deve fare il sindaco, non il ministro. Ma questo non significa creare delle Regioni che siano “più Regioni” di altre. A livello internazionale ci sono molte differenziazioni di poteri tra le città, anche in Italia: è chiaro che il sindaco di Roma deve gestire una realtà molto più complessa del sindaco di Tagliacozzo. Non esistono, invece, esperienze internazionali di Regioni che sono “più Regioni” di altre, se non nel caso molto discutibile delle Regioni a statuto speciale italiane e della Catalogna in Spagna».

Infatti c’è chi argomenta a favore dell’Autonomia differenziata proprio a partire dall’esistenza delle Regioni a statuto speciale. Si dice: queste Regioni sono la dimostrazione ch la loro maggior autonomia di un territorio non intacca l’unità nazionale.
«Conosco questa argomentazione. In buona sostanza il Veneto, che è il vero regista di quest’operazione, vuole diventare come il Trentino Alto Adige. I veneti vedono i loro vicini di casa con più poteri e più soldi e si chiedono: perché loro sì e noi no? Ad esempio la spesa media per studente in Trentino è più alta del 70% che in Veneto. Il punto è che non è possibile che tutte le Regioni italiane ottengano lo statuto speciale, a meno che non si cambi la Costituzione o si frantumi definitivamente lo Stato. E comunque credo che l’esistenza di Regioni a statuto speciale meriterebbe oggi una riflessione».

In Catalogna, invece, l’autonomismo è diventato indipendentismo.
«Il regionalismo differenziato in Spagna nasce però nei Paesi Baschi, che sono sostanzialmente una regione a statuto speciale più ricca delle altre. I Paesi Baschi ricordano il caso italiano della Provincia autonoma di Bolzano, ma con una differenza importante: quando le fu concessa l’autonomia, Bolzano era molto povera ed è diventata ricca proprio grazie ai super finanziamenti della Provincia autonoma; i Paesi Baschi, invece, quando dopo il Franchismo ottennero maggiore autonomia, erano già ricchi di loro. In quel caso l’autonomia fu frutto di una scelta politica di pacificazione».

Mi dica della Catalogna.
«In Catalogna esisteva un movimento autonomista storico, fra l’altro giustificatissimo perché il Franchismo aveva represso la cultura catalana in modo impressionante. La concessione di ampie autonomie alla Catalogna è stata un processo assolutamente benvenuto. Gli indipendentisti catalani rappresentavano una quota minoritaria, tra il 25 e il 30% secondo i sondaggi di opinione, ma negli anni Dieci del Duemila, con l’avvento in Europa della grande austerità, il livello dei servizi nella regione si è abbassato. E a quel punto i catalani hanno iniziato a pensare, esattamente come i veneti fanno con il Trentino: ma perché i baschi sì e noi no?».

E la situazione ha rischiato di degenerare.
«Dietro la rivolta catalana ci sono storici motivi politico-culturali, ma anche concreti motivi di carattere fiscale, che hanno fatto sì che il sostegno agli indipendentisti sia man mano cresciuto, fino allo scontro del 2017, quando è stato proclamato un referendum per l’indipendenza della regione. Come sappiamo, la Corte costituzionale spagnola ha negato la legittimità di quella consultazione, ma i catalani l’hanno svolta lo stesso e da lì si è scatenata una contrapposizione molto violenta e complessa. Molti l’hanno dimenticato, ma nel 2016 anche il Consiglio regionale del Veneto aveva chiesto un referendum sull’indipendenza. Anche in quel caso la Corte costituzionale italiana disse che la consultazione non si poteva fare. Ed è lì che scattò la differenza con la Catalogna: il Consiglio regionale del Veneto si è accontentato di chiedere maggior autonomia».

Nei giorni scorsi lei è stato a presentare il suo libro proprio a Barcellona. Che clima ha trovato?
«Oggi il clima è più tranquillo. Il Governo socialista non è centralista e sta cercando di avere un rapporto più disteso con la Regione catalana».

Abbiamo parlato di materie. Ora parliamo di soldi: la Lombardia ha un residuo fiscale sui 50 miliardi di euro, il Veneto e l’Emilia Romagna oscillano tra 17 e 18. È giusto che le tasse pagate da un cittadino di Milano vadano a finanziare i servizi ricevuti da un napoletano?
«Così è scritto nella Costituzione: quando nasciamo diventiamo cittadini italiani. Siamo uno Stato unitario decentrato, non uno Stato federale. Il residuo fiscale, quindi, è un concetto politico: non c’è alcun principio che vi attribuisca rilevanza. Anche perché, allargando il discorso, si potrebbe parlare di residuo fiscale provinciale, o comunale. Perché i milanesi devono pagare per i pavesi? O perché quelli di via Montenapoleone devono pagare per quelli del quartiere Gratosoglio? Questo ragionamento per assurdo ci fa capire che, alla fine, il residuo fiscale è in-di-vi-dua-le! La nostra Costituzione dice che i servizi sono garantiti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito. Al contrario, il principio del residuo fiscale tende ad attribuire diritti diversi in base alla ricchezza dei territori in cui si vive. Questo è pericoloso».

Si può dire, però, che esiste un tema di malgoverno che riguarda soprattutto il Sud?
«Assolutamente sì, ma da questo punto di vista l’Autonomia differenziata non cambierebbe le cose. Anzi. La riforma Calderoli va a modificare l’impostazione del finanziamento alle Regioni disegnata dalla legge 42 del 2009 (la legge delega sul federalismo fiscale, ndr): in base a quel sistema, rimasto peraltro in gran parte inattuato, gli indicatori di finanziamento sono basati sul fabbisogno. È così che possono emergere i maggiori casi di inefficienza. Con l’Autonomia differenziata, invece, le nuove competenze non sarebbero finanziate in base ai livelli di fabbisogno a costi standard e a risultati tangibili in termini di qualità di servizi, ma con una percentuale del gettito fiscale nazionale. Questo significa che il presidente di una Regione che avesse tutte queste nuove competenze sarebbe totalmente irresponsabile: avrebbe i soldi senza destinazione vincolata e potrebbe farci quel che vuole». 

Oggi però, almeno in campo sanitario, sono già previsti i Lea (Livelli essenziali di assistenza).
«Ma non sono legati ai meccanismi di finanziamento! Le faccio un esempio che chiarisce molto. Se una Regione ha una bassa capacità di fare screening tumorali, per cui in quel territorio si muore per malattie curabili, non si viene a determinare un fabbisogno. E quindi quella Regione non riceverà delle risorse aggiuntive vincolate a fare gli screening, perché il Fondo Sanitario Nazionale è ripartito in base alla popolazione pesata per età». 

Che conclusione dobbiamo trarne?
«È tutto il sistema italiano di costruzione dei meccanismi di responsabilizzazione che è ben lungi dall’essere attuato. Il punto chiave è che le regole di allocazione delle risorse dovrebbero essere uguali per tutti. Invece con l’Autonomia differenziata si va nella direzione opposta: regole speciali per le Regioni a maggior autonomia».

Come si è venuto a creare questo divario tra le Regioni più ricche, che spesso sono al Nord, e le Regioni arretrate, che spesso sono al Sud?
«L’esistenza di un divario di reddito tra i territori non è inconsueta nel panorama mondiale ed europeo: anche in Germania e nel Regno Unito ci sono vari esempi analoghi. Quel che colpisce, in Italia, è la durata del fenomeno e la sua intensità. Da cosa deriva? C’è un insieme complesso di vicende che attengono alla geografia, alla storia e alle politiche che sono state fatte. Ci sono poi divari di efficienza: il caso più rilevante è appunto quello delle sanità, dove incidono contemporaneamente una gestione clientelare e dei meccanismi di finanziamento, che fanno sì che, ad esempio, la sanità del Sud sia sotto-finanziata. Ma finché non si mettono in campo indicatori più precisi, basati sui fabbisogni, un presidente di Regione potrà sempre dire che la sua Regione ha una sanità peggiore perché dispone di molte meno risorse di un’altra. Ma la sanità è un argomento molto complesso».

A cosa si riferisce?
«Col complessivo sotto-finanziamento della sanità italiana, i sistemi sanitari dell’Emilia-Romagna, prevalentemente pubblico, e della Lombardia, prevalentemente privato, stanno in piedi grazie alla mobilità sanitaria. Se i sistemi sanitari del Sud diventassero improvvisamente efficienti e si azzerasse la mobilità sanitaria, in Emilia-Romagna e Lombardia si aprirebbero colossali problemi».

Pensa che il regionalismo in Italia abbia fallito?
«No. Io sono per fare analisi basate sui fatti e sulle performance. Quando sento dire che le Regioni hanno fallito e bisognerebbe ri-accentrare tutto, non sono d’accordo. Sicuramente, se fossimo un Paese serio, dovremmo preoccuparci di fare una valutazione sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che quest’anno compie 23 anni: dovremmo analizzarne i risultati e intervenire dove serve, ma resto dell’idea che l’Italia non è un Paese che si può governare da Roma. Bisogna trovare la miglior combinazione dei poteri che consenta di progredire sul profilo dell’efficienza».

E questa combinazione, secondo lei, non è certo nell’Autonomia differenziata.
«Negli ultimi mesi il dibattito sulla riforma ha assunto una colorazione politica – la maggioranza a favore, l’opposizione contro – che fino a poco tempo fa era meno netta. Andando più indietro nel tempo, ricordo ad esempio che nel 2014 Giorgia Meloni presentò una proposta di legge per abolire le Regioni… Oggi non mi aspetto che la riforma possa subire “scricchiolii” in parlamento. Qualcosa per contrastarla possono farla invece i sindacati, le rappresentanze delle imprese e i cittadini. Il tema è complicatissimo dal punto di vista tecnico ma molto chiaro dal punto di vista politico: dove sta il potere in Italia? Quali garanzie di controllo hanno i cittadini? Su cosa basare l’uguaglianza tra i cittadini indipendentemente da dove vivono?».

LEGGI ANCHE: “Per il Sud può aprirsi una nuova stagione. Ma dipende dalla politica”: intervista il direttore dello Svimez

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