L’astensione è il primo partito d’Italia: ecco perché il 25 settembre un italiano su tre non andrà a votare
Ci saranno partiti vincitori e vinti, i candidati eletti e quelli esclusi, i brindisi trionfali e le analisi della sconfitta, le sorprese, le delusioni, i veleni, i retroscena. Ma per un italiano su tre, il 25 settembre, qualsiasi sia il risultato delle elezioni, non farà molta differenza
Ci saranno partiti vincitori e vinti, i candidati eletti e quelli esclusi, i brindisi trionfali e le analisi della sconfitta, le sorprese, le delusioni, i veleni, i retroscena. Ma per un italiano su tre, il 25 settembre, qualsiasi sia il risultato delle elezioni, non farà molta differenza. Chi per disinteresse, chi per protesta, chi per rassegnazione, qualcosa come 15/16 milioni di elettori a votare non ci andrà. Significa un terzo del Paese maggiorenne, significa una marea di cittadini che non si sente rappresentata da alcuna forza politica, significa un fallimento collettivo. È in questo dato – riportato da tutti i sondaggi – che si misura la distanza siderale che separa oggi gli eletti dagli elettori: il popolo dimenticato degli astenuti oscilla fra il 30 e il 35% degli aventi diritto, un record assoluto nella storia repubblicana. O meglio: un nuovo record, l’ennesimo, perché è da trent’anni ormai che in Italia l’affluenza alle urne è in caduta libera. Fino al 1992 votava ancora quasi il 90% dei cittadini; all’alba del nuovo secolo eravamo scesi poco sopra l’80; l’ultima volta, nel 2018, non si è arrivati nemmeno al 73%; e fra due settimane con ogni probabilità andrà anche peggio. Il fenomeno, insomma, ha radici profonde.
L’inizio di questo collasso partecipativo coincide – almeno a livello temporale – con la caduta della Prima Repubblica sotto le macerie di Tangentopoli e del Muro di Berlino, quando i partiti tradizionali novecenteschi vengono mandati in pensione per fare largo ai loro eredi “liquidi” due-punto-zero: meno ideologia, meno radicamento territoriale, più personalismi e salotti tv. Così la politica è progressivamente uscita dalla vita quotidiana dei cittadini. Al resto hanno contribuito le ruberie varie di qualche rappresentante disonesto e i privilegi garantiti alla «casta» degli eletti, mentre il mondo là fuori (dal Palazzo) patisce i danni della crisi economica e delle disuguaglianze crescenti.
Secondo una recente rilevazione dell’istituto Ipsos per il Corriere della Sera, il 51% degli italiani finora ha seguito poco o per nulla la campagna elettorale, con picchi di “disinteresse” in particolare fra operai, disoccupati, lavoratori autonomi, donne casalinghe e persone meno istruite: cittadini poveri o precari, cioè, che si sentono abbandonati dalla politica e che nelle proposte dei partiti non vedono possibili soluzioni ai loro problemi molto concreti. Non a caso, come abbiamo visto alle ultime amministrative, nelle grandi città sono soprattutto le periferie a disertare le urne. Anche tra i più giovani la sfiducia verso la politica è tangibile con mano: nonostante i maldestri tentativi dei vari leader di far breccia attraverso TikTok, un sondaggio di Swg per la Repubblica ha evidenziato che l’80% degli elettori fra i 18 e i 24 anni ritiene che «con la classe dirigente che abbiamo in Italia le cose non cambieranno mai».
Ma la questione è anche di meccanismo elettorale. «Colpa di ambedue gli schieramenti», come ha ricordato qualche settimana fa su TPI il costituzionalista Michele Ainis: «Il Mattarellum fu peggiorato dalla destra, brevettando il Porcellum, e quest’ultimo congegno venne peggiorato poi dalla sinistra con il Rosatellum». Osserva sempre Ainis: «Non puoi scegliere i candidati alle elezioni, giacché le primarie sono un fantasma del passato; non puoi nemmeno scegliere fra i candidati decisi dai partiti, dato che i loro nomi figurano su un listino bloccato; non hai voce in capitolo sulle alleanze, sugli apparentamenti fra una lista e l’altra, forse neppure sugli esiti del voto. Altrimenti perché tutto questo pietire e sgomitare dei politici per infilarsi in un “collegio sicuro”? Se lorsignori sono già certi del tuo voto, tu elettore cosa sei, un soldato, un burattino?».
In effetti, con l’attuale sistema elettorale il potere di scelta del cittadino votante è ridotto all’osso. Con i listini bloccati decide tutto il leader di partito, i candidati da blindare vengono “paracadutati” nei collegi sicuri, e pazienza se in quella circoscrizione non hanno mai messo piede. Il sistema favorisce poi alleanze improvvisate, con il risultato che, ad esempio, gli elettori bolognesi del Pd si ritroveranno (di nuovo) a votare automaticamente per Casini o quelli di Napoli-Fuorigrotta per Di Maio. Per non dire dei complessi algoritmi che provocano il cosiddetto “effetto flipper”, in base al quale ad esempio – come raccontato anche su questo giornale dal professor Emanuele Bracco, associato di Economia politica all’Università di Verona – un travaso di 15mila voti a Milano dalla Lega a Fratelli d’Italia farà scattare un seggio in più per la Meloni non sotto la Madonnina bensì in Sardegna, e a scapito non del Carroccio ma di Forza Italia, che sarà a sua volta “rimborsata” con un posto in più in Basilicata, sottratto – questa volta sì – alla Lega. Un meccanismo cervellotico che sminuisce ancor più il potere di scelta dei territori e trasforma le elezioni in certi casi in una vera e propria lotteria.
Osserva la politologa Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, che «dobbiamo preoccuparci non tanto perché siamo un Paese ad alto tasso di astensionismo, quanto perché lo siamo diventati». «La scarsa affluenza alle urne – spiega a TPI la professoressa – è un fenomeno consueto nelle democrazie elettorali: negli Stati Uniti ad esempio lo è fin dai tempi della dichiarazione d’indipendenza nel XVIII secolo, ma anche nel Regno Unito lo è sempre stato, nonostante le lotte cruente per il suffragio a partire dalla prima metà dell’Ottocento… Tuttavia nelle democrazie che hanno conosciuto il fascismo e la dittatura di massa, come la nostra, l’affluenza al voto per decenni è stata molto elevata, spinta da un diffuso attivismo e dalla disciplina tenuta da partiti ben strutturati: c’era un’élite di intellettuali che dettava la linea e una massa di elettori che venivano “disciplinati” attraverso le sezioni di partito o le parrocchie. Finita quell’epoca, ciascun elettore ha preso ad andare “dove lo porta il cuore”, in taluni casi scegliendo di non votare». Perché? «Oggi – risponde Urbinati – c’è una concezione estetica della scelta politica: se mi piaci ti voto, se non mi piaci non ti voto». Dove la componente estetica conta meno è in quelle fasce sociali in cui forte è la valutazione delle scelte elettorali rispetto ai propri interessi, più spesso di categoria: «Ci sono corporazioni, come gli industriali, i commercianti, i liberi professionisti, i tassisti, i bagnini, che sanno di avere privilegi acquisiti da perdere e quindi da difendere (ecco perché il tema delle tasse è centrale). Queste corporazioni – prosegue la politologa – tendenzialmente vanno a votare, perché sanno che c’è qualcuno da eleggere che sarà pronto a tutelarle. Poi ci sono i molti altri, i cittadini e basta, i disgregati, coloro che votano se c’è qualcuno che fa loro delle promesse o che come loro si mostra aggressivo-critico, o se sentono di poter confidare in qualcuno sul territorio. Altrimenti non votano. Il voto è potere: chi sa di averlo lo usa, chi sente di non averlo non lo usa».
Cosa possono fare i partiti per riavvicinare chi oggi non si sente rappresentato? «Per conquistare questa cittadinanza “sola” – spiega Urbinati – bisogna conoscere i territori e le appartenenze sociali. La questione riguarda gli interessi che possono essere soddisfatti oppure no. Cosa diciamo ai disoccupati, ai precari, a quelle donne costrette a stare in casa a fare le mamme? È rispondendo a queste domande che si può colmare la distanza fra elettori ed eletti».
Quel che sembra certo, comunque, è che il prossimo 25 settembre una percentuale elevata di astenuti dovrebbe favorire la coalizione di centrodestra. «In questo momento è così», chiosa la politologa. Perché «questa destra è rappresentativa di interessi organizzatissimi. È diversa da quella di qualche anno fa, con il populista Salvini, che mobilitava le masse». «Questa – conclude Urbinati – è una destra in doppiopetto, una destra dura, che si appoggia alle classi forti, una destra d’ordine, repressiva, che farà gli interessi di coloro che hanno molto da proteggere e vogliono dare poco o nulla alla Repubblica. È una destra classista, non nel senso marxista del termine ma in senso corporativista, rappresentativa di una società divisa in corporazioni. E le corporazioni votano a destra, non a sinistra». Soprattutto, loro votano.