Roberta Pinotti a TPI: “Sull’Afghanistan riprenderei le stesse decisioni, ma ritirarsi è stato un errore”
Senatrice del Pd ed ex ministra della Difesa, Roberta Pinotti in un'intervista a TPI racconta per la prima volta la sua verità, proponendo un bilancio lucido e disincantato su vent’anni di guerre umanitarie
Senatrice Pinotti, lei è stata la ministra della Difesa più a lungo in carica durante le guerre in Afghanistan.
Quattro anni. Anche se – in precedenza – Martino ha toccato i cinque.
Posso farle le domande semplici, che però comportano le risposte più difficili, sulle missioni contro i talebani?
(Sorride). Dipende. Quando si parla di Talebani nulla è semplice.
Proviamo. È stato giusto intervenire in Afghanistan?
Quante ore ho?
Provi a partire da una risposta sintetica.
Sintetica? Eccola. L’attentato delle due torri è stato un tale choc per l’America, e l’Occidente, che richiedeva una risposta forte, dura, inequivocabile. Io, su questa necessità, non ho mai avuto dubbi.
E i talebani erano il bersaglio giusto? Non erano gli unici responsabili.
Certo: molti attentatori dell’11 settembre erano sauditi. Ma il regime talebano, all’epoca proteggeva Al Qaida. Questo è un fatto che nessuno ormai contesta. Bin Laden si nascondeva nelle grotte al confine tra Pakistan e Afghanistan. Malgrado tutto, dunque, penso che colpire quei terroristi fosse inevitabile.
Inizio l’intervista a Roberta Pinotti e capisco che la senatrice del Pd più esperta di Difesa ha la risposta alle tante domande che tutti si fanno in queste ore. Il perché del ritiro americano, il perché di tanti errori, ma – soprattutto – un bilancio lucido e disincantato su vent’anni di guerre umanitarie.
La Pinotti oggi è “una riserva della Repubblica”, si può essere d’accordo o meno con lei, ma di certo (al contrario di molti uomini che si rifugiano nella diplomazia e negli omissis), in questo dialogo non si sottrae a nessuna domanda. Spiega perché pensa che ben tre diverse amministrazioni americane abbiamo fatto errori. Rivela il suo dolore più grande: “Quando gli americani bombardarono l’ospedale di Médecins Sans Frontières a Kunduz io avrei voluto…”. Ma ci arriviamo alla fine. Per la prima volta l’ex ministra racconta la sua verità. Eccola.
Senatrice, lei pensa – come allora – che l’Afghanistan fosse una “guerra giusta”?
Le guerre non sono mai giuste. Ma era necessario difendersi. Ed era legittimo intervenire contro uno stato che ospitava una centrale terroristica pericolosa per tutto il mondo, e anche per gli afghani e le afghane che non volevano vivere sotto la dittatura del burqa.
È stato giusto ritirarsi?
(Sospiro profondo). No. Tempi e modalità sono state incomprensibili.
Spieghiamolo.
Chiedo: perché non andarsene prima, allora?
Quando?
Nel 2011, per esempio, quando era stato ucciso Bin Laden.
Perché?
In quei giorni aveva un senso ritirarsi, se l’obiettivo fosse stato solo la lotta al terrorismo: sul territorio afghano, le forze dell’alleanza erano ancora molto numerose.
Invece cos’é accaduto?
Errori, strategici e tattici. E i nostri militari, pur rispettosi dell’alleanza e delle sue regole, non lo hanno mai nascosto.
L’errore più grande?
I continui “stop and go” su contingenti e modalità di missione ci hanno indebolito.
Fino agli accordi di Doha tra Stati Uniti e talebani: una Caporetto a stelle e strisce.
Una disfatta.
È molto netta nel giudizio.
Lucida, direi. Hanno negoziato con gli integralisti quando eravamo debolissimi. Senza poter dettare condizioni.
Questo ha prodotto la disfatta?
Direi proprio di sì.
Come lo spiega?
I talebani non si sono mai sentiti così forti come a Doha. Ed era vero.
Un fallimento di Trump?
I suoi errori sono sotto gli occhi di tutti. Ma bisogna anche chiedersi: e gli errori degli altri?
Da dove si comincia?
Dal 2003, con l’Iraq. Sbaglia Bush con la campagna sulle armi di distruzione di massa e le prove, finte, che giustificarono l’intervento, sottraendo risorse dall’Afghanistan
E poi?
Anche la gestione di quella campagna fu sbagliata.
Lo sbaglio più grande?
L’umiliazione di tutti gli appartenenti al partito Baath e del gruppo dirigente di Saddam ha fatto nascere un risentimento che è stato poi messo a disposizione dell’integralismo.
Uno sbaglio?
Non sono certo una fan del Baath ma è quello l’humus da cui è nata la strategia militare dell’Isis: califfato in Medio Oriente, terrorismo in Europa.
C’erano alternative?
Ne sono certa. Non basta colpire il nemico. Devi porti il problema di cosa accade dopo che lo hai fatto.
Ma il Pd non si è opposto a tutti gli interventi.
Nel mio piccolo ho contribuito al voto contrario del mio partito di allora, i DS, alla missione in Iraq.
È stato un errore seguire gli americani quando si sono ritirati?
C’è una dichiarazione di Josep Borrell, l’alto rappresentante per la sicurezza in Europa: “Non siamo riusciti nemmeno a inviare cinquemila persone per mettere in sicurezza l’aeroporto”.
Grave che ci si sia arrivati, ma perché?
Non abbiamo ancora costruito strategie di Difesa comuni. Siamo bloccati dai farraginosi meccanismi decisionali dell’Unione.
Ad esempio?
Secondo lei si possono decidere azioni di messa in sicurezza, in emergenza, all’unanimità?
Lei pensa di no.
In scenari così complessi devi proiettare e coordinare con tempismo ogni intervento. Ma non esistono ancora gli strumenti.
L’Italia come si è comportata in questa bufera?
La nostra diplomazia e i nostri militari? Encomiabili: sono stati inviati 1500 soldati, con tempismo provvidenziale, per favorire l’evacuazione di civili.
Abbiamo ritirato l’ambasciatore prima di tutti: un errore?
Preferisco che a questa domanda risponda chi si occupa di esteri.
Ma in quelle condizioni gli italiani hanno fatto il massimo o no?
Anche Francesca Mannocchi, una giornalista che ha espresso spesso punti di vista molto critici sulle missioni, non certo vicina ai comandi militari, ha detto: “Sono rimasta ammirata dell’impresa compiuta dai nostri soldati, non solo per l’efficacia ma per i modi e l’attenzione gentile per tutti”. Con molta onestà, lo dice pubblicamente.
Lei sente di aver fatto errori in Afghanistan, da ministra?
È sempre difficile autogiudicarsi: ma so che riprenderei le stesse decisioni.
Dal 2002 al 2007 lei è stata presidente della commissione difesa. Poi sottosegretaria. Poi ministro, dal febbraio 2014. Tanti anni, nessun rimorso?
Le racconto un episodio: nel 2007 – andiamo in missione a Kabul ed Herat – con la commissione Difesa della Camera.
Una indagine sul campo.
Già. Ma in quella occasione, oltre ai militari, ai diplomatici e ai cooperatori, abbiamo incontrato anche i colleghi del Parlamento afghano: alcuni di loro avevano combattuto con i signori della guerra.
Un dialogo non semplicissimo, immagino.
Durante il colloquio, era esplosa la loro rabbia.
Su cosa?
Ci raccontarono che le truppe americane e inglesi avevano bombardato una festa di matrimonio, ingannati da raffiche di kalashnikov, sparate in aria in segno di giubilo.
E lei?
So che le modalità delle Forze Armate anglosassoni nella gestione delle missioni è diversa dalla nostra, su rischi, vittime e opportunità.
E come finì con i signori della guerra?
Con un gesto. Che mi stupì molto.
Quale?
Ad un certo punto chiesi: “I nostri soldati hanno fatto qualcosa di simile, o sbagliato?”.
E loro?
L’uomo che aveva appena tuonato prese dal tavolo un foglio bianco, lo sollevò in verticale e disse: “Gli italiani sono come questa carta”.
E lei?
Chiesi: “In che senso?”. E lui: “Senza macchia”.
Detto così pare troppo bello per essere vero.
C’erano tutti i parlamentari in missione, tutti testimoni. Abbiamo avuto 53 morti, non smetto di ricordarli con immenso dolore. Ma ad Herat abbiamo operato con enorme attenzione e rispetto per la popolazione.
Mi faccia un esempio.
Gliene faccio due, che raccontano la gestione italiana.
Vada con il primo.
I nostri militari si rendono subito conto che quando sono necessarie perquisizioni per motivi di sicurezza nascono problemi, perché per gli afgani è umiliante che dei soldati maschi entrino in casa se ci sono delle donne, peggio ancora se sole.
E cosa fate?
Gli stessi comandi formano una pattuglia femminile che entra nelle case se ci sono donne, risolvendo il problema. Una piccola grande cosa.
E il secondo esempio?
Le nostre pattuglie portavano con loro una parlamentare donna di Herat nei villaggio, quando andavano a distribuire acqua e viveri. Lei voleva tenere il contatto con il suo collegio elettorale, ma nessun uomo afghano voleva farle da autista.
Pazzesco.
Rende l’idea di come lavoriamo noi italiani e perché abbiamo tanto successo nelle missioni di peace keeping, nei teatri più difficili. Anche da questo lavoro nasce ad Herat un festival del cinema femminile.
E un rimpianto su Doha lo ha?
Do un giudizio nettamente negativo su quella trattativa, ma sbagliò anche Obama.
Quando?
Nel 2009, aumenta le truppe, di 30mila unità. Ma quello sforzo viene vanificato perché contemporaneamente annuncia la fine della missione, entro 18 mesi!
Dodici anni prima di farlo!
Si, ma il messaggio era stato già colto dai talebani: “Voi avete gli orologi – dicevano loro – noi il tempo”.
Che logica aveva quell’annuncio?
I nostri militari consideravano sbagliato annunciare date di fine missione. Forse era quello il momento di aprire una trattativa. Gli accordi di Doha senza convocare il governo legittimo al tavolo, sono stati un messaggio esiziale. Come si poteva chiedere agli afghani di combattere per un governo, certamente debole e pervaso dalla corruzione, a cui neanche il suo principale alleato riconosceva uno status?
Quindi un doppio errore.
Si. Delegittimare il governo, proprio mentre si legittimavano i talebani.
Una trattativa al ribasso.
Ricordo il disappunto delle donne afghane, quando i talebani a Doha dicevano: “I diritti delle donne saranno regolati dalla legge islamica”. Senza volere specificare come si sarebbe tradotta quell’affermazione.
Lo ripetono anche oggi.
Come dire tutto, o niente.
Cosa voleva, davvero, Trump a Doha?
L’impegno dell’Afghanistan a non consentire la ricostruzione di centrali terroristiche.
La sento scettica.
L’attentato di Kabul dimostra che non è così facile arginare il terrorismo. E che il controllo del territorio è tutt’altro che semplice.
Anche il terrorismo internazionale può tornare?
Ho imparato che il terrorismo non va mai sottovalutato. A volte emerge, nei momenti difficili diventa carsico. Cova sotto la cenere e, come abbiamo visto, sa riaccendere la sua fiamma con grande rapidità.
Il tentativo di ricostruire lo Stato afghano è fallito.
Purtroppo la conclusione è sotto i nostri occhi. Ma ci sono state anche conquiste importanti. È nato un parlamento. Il 25% degli eletti era donna. Ha funzionato una legge elettorale con le quote rosa, in Afghanistan! Le donne sono andate a scuola. A Herat il procuratore generale era una donna. Molte donne sono diventate imprenditrici, docenti, giornaliste.
Ma adesso devono scappare.
È così. Abbiamo portato via più di 5000 persone. Un miracolo, nelle condizioni date. Per fare di più serviva più tempo.
Cosa pensa di Salvini che dice: “Salviamo donne e bambini, ma non gli uomini”?
Lui ripete sempre: “Lo dico come padre”. Quando è in gioco la sua famiglia il padre è molto importante. Quando si parla degli afghani a quanto pare no.
La fa arrabbiare?
Faccio ironia perché, in questo caso, è davvero una frase sciocca. I nostri collaboratori, fra l’altro, erano quasi tutti uomini. Dunque dovevamo abbandonarli?
Anche Biden, democratico come lei, ha fatto errori?
La decisione, come abbiamo detto, era di Trump. Ma le modalità scelte da Biden per il ritiro sono state devastanti.
Si poteva tornare indietro?
Dopo Doha? Non credo. Sono macchine in cui, una volta avviato il motore, non si può fare marcia indietro scalando una marcia.
Gli americani hanno liberato 5000 prigionieri e l’attuale leader dei talebani, Baradar. Si fa delle domande.
Non inseguo dietrologie. Ma era ovvio che quei combattenti sarebbero stati benzina per la guerriglia.
È sbagliato trattare con i talebani?
Non è sbagliato parlare con i talebani. È sbagliato legittimarli.
Lei ha fatto errori di cui si rimprovera sulle missioni?
Quando sono diventata ministro eravamo nella terza parte della missione: Resolute support. Compiti di addestramento. Per mia fortuna non ho dovuto piangere vittime di quella missione. È stato già doloroso vivere il mio momento più drammatico: quando sono morti quattro giovani piloti aeronautici in esercitazione. Tra loro una ragazza, la prima donna caduta in venti anni!
Ma Conte ha sbagliato o no, con quella frase?
Io sono molto netta: con i talebani, purtroppo, si è dovuto trattare. Ma il confine dev’essere chiaro. Puoi negoziare, come in ogni guerra: non legittimare.
Avevamo informatori tra di loro?
Non so se tra di loro, ma certo grazie alla nostra intelligence e alle informazioni che ci hanno dato gli afghani abbiamo, per fortuna, sventato decine di attentati.
Chi sono i nuovi talebani?
È presto per dirlo. Di certo ci sono differenze nella comunicazione. I talebani di vent’anni non volevano essere fotografati. Questi fanno i selfie e girano i video. Ho colto messaggi molto contrastanti. Sono una nuova generazione, ma non sembrano diversi nella sostanza.
Come è diventata la prima donna ministro della Difesa che ha visto sfilare uomini davanti a lei?
Nella legislatura in cui ho iniziato, nel 2001, i temi più importanti erano di politica estera. Era difficile accedere alla Commissione Esteri, perché era destinata alle personalità con più esperienza.
E in commissione difesa si?
(Ride). La destra l’amava, la sinistra la snobbava. Tutti i big, da D’Alema alla Melandri era in Esteri… così sono andata io.
Lei appoggiava battaglie pacifiste e si è trovata a guidare un esercito.
La difficoltà all’inizio per me è stata accettare e capire come l’uso della forza da parte dello Stato avesse specifiche conseguenze.
Ad esempio?
Il tema dell’acquisizione dei sistemi di arma, su cui eravamo chiamati a decidere. Mi ponevo molti problemi e mi chiedevo se non fosse meglio scegliere una commissione per me meno lacerante.
Ha pensato di lasciare?
Si, ci ho pensato.
E cosa successe?
Un giorno viene in audizione Michelle Bachelet, allora ministra della Difesa e futura presidente del Cile.
Donna di polso.
Era la figlia di un ufficiale che era rimasto fedele ad Allende. Una socialista. Le feci una domanda da boyscout: “Per lei è giusto chiedere soldi per gli armamenti”.
E lei?
Capì cosa intendevo e lei rispose molto seriamente: “Onorevole Pinotti, la Difesa è la precondizione della sopravvivenza di uno Stato”. Forse si era posta la stessa domanda.
E poi?
Studiando e lavorando in commissione ho iniziato a capire che per avere sicurezza devi spendere anche nei sistemi che te la garantiscono. Gli intercettori, per esempio, sono un sistema di difesa primario.
Suo padre e sua madre erano cattolici. Lei da boy-scout cantava “C’era un ragazzo” di Morandi davanti al fuoco!
(Sorride). Oh, guardi che la canto ancora adesso. Non ho tradito nessuno dei miei ideali.
Mi racconti una manifestazione dei vent’anni.
Avevamo partecipato, con il gruppo scout di cui facevo parte, ad un sit-in contro la mostra navale bellica.
A-ahhh. E come andò?
Eravamo appena arrivati, riandammo via subito.
Possibile?
Primi anni ottanta. Da un lato c’erano gli autonomi, molto violenti, dall’altro le forze dell’ordine. Scegliemmo – saggiamente – di non restare in mezzo.
Era all’Agesci. Quanto si sente diversa da quella Pinotti giovane sui temi della guerra?
Sono sempre io. Da scout, se non mi fossi convinta che era una cosa giusta mi sarei dedicata ad altro. Ma mi interrogo sempre se le cose sono giuste o sbagliate. Mi piace pensare che si può migliorare il mondo intorno a noi.
Si è ritrovata, da ministro, contestata dai pacifisti.
Uhhh… !!! A Genova, durante un dibattito c’era il gruppo storico genovese con grandi cartelli contro gli F35.
Si sentiva in colpa?
No, anche perché non si trattava di una mia scelta. Li aveva voluti, nel 1998, Beniamino Andreatta.
Avrebbe potuto interrompere il programma.
Primo. Uno stato ha bisogna di continuità, non di capricci.
Due?
Mi chiedevo. Servono degli aerei per la nostra aeronautica? Si.
È stata contestata per due anni sul mercato degli armamenti.
Sa che questa domanda mi rende felice?
Come mai?
Mi permette di spiegare che il ministero della Difesa, in Italia, non ha nulla a che vedere con la vendita delle armi.
Non ci crederà nessuno.
Già. Ma la legge 185 definisce la materia “vigilata dal ministero degli Esteri”.
Per una sua frase su una fabbrica di armi in Sardegna ha ricevuto centinaia di attacchi.
(Ride amaro). Me la sono tirata addosso io.
Come mai?
Un giorno un freelance mi chiese cosa ne pensassi.
E lei?
Invece di un no comment dissi: “Si tratta di una azienda tedesca che produce da noi. Se le vendono si tratta di un contratto autorizzato”.
Ed era vero.
Esatto. Ma ci fu un anno di polemiche. A volte la verità è scomoda.
Dopo un viaggio ufficiale Amnesty disse che lei era andata a vedere armi in Arabia Saudita.
E, per lo stesso motivo, non era vero. Il ministro della Difesa non gira con il catalogo degli elicotteri.
Se avesse chiuso il programma degli F35….
Detto brutalmente? Sarei diventata la politica più popolare d’Italia.
E non le faceva piacere?
Forse. Ma sarebbe stata una enorme perdita di risorse per lo Stato.
Sui marò sequestrati in India ha ricevuto decine di attacchi. Ma li ha riportati a casa.
C’è un motivo. Tutti ne parlavano e ne discutevano. La destra voleva farne una battaglia-simbolo. Io non ho mai detto parole che non fossero istituzionali.
Neanche quando sono stati liberati, perché?
C’era una situazione difficile. Mi stava a cuore risolvere le cose. Anche quando sono rientrati restava in corso l’arbitrato. Sono andata in India da Massimiliano Latorre, quando è stato male. Ho accolto in Italia Salvatore Girone, appena sceso dall’aereo. Non dissi nulla, nemmeno allora. Ne parlo per la prima volta oggi, a TPI.
Fuori tempo massimo per raccogliere applausi.
Non potevo raccontare tutto quello che stavamo facendo perché avrei messo a rischio il risultato.
Qual’è stato il momento in cui la poltrona da ministro le è stata più stretta?
Ho sofferto molto quando fu bombardato l’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz. È stato drammaticamente l’episodio che ha messo più a nudo le debolezze della missione alleata in Afghanistan.