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Home » Politica

Aboubakar Soumahoro a TPI: “Sono un patriota, dobbiamo riappropriarci di questa parola”

Immagine di copertina
Il neoparlamentare Aboubakar Soumahoro

Il primo parlamentare italiano di origine ivoriana si racconta a TPI: “Chi sono? Non importa. Il mio sogno, mentre lustravo le scarpe, era lo stesso di tanti altri giovani di tutto il mondo. La mia storia è dentro la storia di tutti loro”

Aboubakar Soumahoro è il primo parlamentare italiano di origine ivoriana. È stato sconfitto per una manciata di voti nel collegio uninominale di Modena, ma il Rosatellum lo ha premiato in Emilia, Lombardia e Puglia. E la Puglia lo ha eletto.

Come ci si sente a essere l’unico deputato afrodiscendente del nostro Parlamento?
«Come un deputato qualsiasi. Il fatto che anche lei veda in questo un’eccezionalità vuol dire che la società ancora non è pronta. Vorrei vivere in un contesto di normalità. Anche se sono consapevole di essere un prodotto mal riuscito delle norme che hanno regolato l’immigrazione».

Mi sembra ben riuscito, se l’hanno eletta.
«Confermo: mal riuscito. Da oramai 22 anni la legge Bossi-Fini vuole che i cittadini migranti siano soggetti sottomessi, ricattabili e inchiodati ai permessi di soggiorno e ai contratti di lavoro. Sudditi. Io sono sfuggito a questo: sono mal riuscito».

Se ora lei fosse la maggioranza, come cambierebbe la Bossi-Fini?
«La abolirei, subito. Dobbiamo far respirare concretamente nell’attività parlamentare l’aria dei principi dettati dall’art. 10 della nostra Costituzione. “L’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale”, vuol dire che non possiamo prescindere dalla tutela della dignità della persona. La Convenzione di Ginevra, la Convenzione europea dei diritti umani riaffermano il principio sancito dall’articolo 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (…)”».

Parla dei migranti?
«No. Parla della persona umana. Quando una parte consistente della nostra popolazione viene stigmatizzata per motivi legati alla diversa provenienza geografica, al diverso orientamento sessuale, al fatto di svolgere la stessa mansione lavorativa, ma ricevendo meno denaro, vuol dire che il sistema è malato».

Quindi, secondo lei, una giusta politica europea sarebbe quella di consentire un accesso indiscriminato alle grandi masse di persone che vogliano entrare in Europa?
«Le rispondo negando la tesi: arrivano in massa. Non è vero. Abbiamo celebrato lo scorso 3 ottobre la Giornata della memoria e dell’accoglienza, per ricordare quel giorno di nove anni fa in cui 368 persone morirono inghiottiti dal Mediterraneo. Ad oggi sono 24mila le persone che hanno trovato la morte annegati per il solo fatto di voler cercare una vita migliore. Sono dati dell’UNHCR».

Non ha risposto alla domanda, però.
«Non possiamo concentrare l’attenzione sul dito puntato e trascurare l’oggetto indicato. Il tema delle migrazioni è lo stesso delle diseguaglianze. Perché le persone fuggono? A causa delle guerre? Possiamo avviare una politica della pace? O parliamo di spreco alimentare? Ogni anno buttiamo nell’immondizia cibo per un valore di 620 miliardi di euro, da una parte. Mentre, dall’altra parte, 800 milioni di persone non trovano da mangiare. Partiamo da qui per capire che i processi migratori non possono essere affrontati all’interno di uno schema da opposte tifoserie».

Quindi che si fa?
«Una nuova legge sulle migrazioni, basata sul rispetto della dignità umana. Cioè una soluzione che non è quella dei blocchi navali della Meloni, né dei Decreti Sicurezza di Salvini-Conte, né degli accordi con la Libia di Minniti. Una legge che abbia come principio quello del rispetto della dignità umana».

Non capisco e insisto: esiste un diritto a entrare dove, quando e come si vuole, nel territorio europeo o esiste un diritto degli Stati a limitare l’ingresso nei propri confini?
«Ogni essere umano ha il diritto muoversi come vuole. Se questa è una norma del diritto internazionale, la conseguenza è che i ragionamenti di alcuni sull’affondamento delle navi siano deliranti: ognuno ha diritto alla vita ed a partire dal luogo in cui risiede per andare dove vuole. Vale per tutti, no?».

Cioè?
«Se il diritto al movimento vale per i nostri connazionali di qualsiasi età che ho incontrato a Bruxelles, Parigi, Londra, che partono da ogni parte d’Italia, valga per tutti. Gli italiani perché emigrano? Forse perché pensano di non poter realizzare il loro progetto di vita dove sono nati. Perché un italiano che va a Londra o a Washington viene chiamato “cervello in fuga”, mentre un nigeriano che si sposta in Europa viene definito “migrante”?».

Che male c’è a chiamare migrante uno che migra?
«Veda, dietro quella parola c’è la stigmatizzazione della persona in una sottospecie umana che ha meno diritti. Anna, Maria, Giovanni che partono dall’Italia sono uguali a Josef che parte dal Ghana o a Omid che scappa dall’Afghanistan. I “cervelli in fuga” hanno il diritto di andare dietro alla realizzazione del loro sogno, mentre i migranti hanno solo il diritto di affondare e di abbracciare la morte?».

Continua a non rispondermi, onorevole: esiste il diritto degli Stati di contingentare gli ingressi?
«Non con il blocco navale. Non con gli accordi con la Libia. Non con i Decreti sicurezza. Ciò premesso, questo diritto esiste. Ma bisogna capovolgere i paradigmi: al centro ci deve essere sempre la persona, in tutta la sua articolazione. Destra, Sinistra e M5S hanno fallito. Tutti».

Perché la sinistra oggi ha perso le elezioni?
«Lei mi vuol dire che può dirsi sinistra chi non è in grado di dare una prospettiva di dignità all’esercito delle partite Iva? Chi non riesce a dare risposte concrete sulla cittadinanza a un milione e 400mila bambini nati e cresciuti nel nostro Paese? Chi non riesce a dare una prospettiva di vita a 7 milioni e mezzo di persone colpite dalla povertà? Chi non riesce a dare soluzione al tema delle differenze salariali e di genere, se non l’8 marzo? Chi non sa dare ai nostri giovani idee meno trasandate dell’alternativa scuola-lavoro? C’è stata una rottura sentimentale tra una certa sinistra e ciò che vive nella società. È in questi momenti che si verificano i fenomeni morbosi più svariati, come diceva Gramsci».

Quindi Letta ha sbagliato nel non fare il campo largo?
«Formule vuote: le aziende sono alle prese col caro bollette; le famiglie vedono un carrello della spesa divorato dall’inflazione; tre milioni di giovani sono dei NEET, cioè non studiano, non lavorano né sono inseriti in un percorso formativo; milioni di italiani sono afflitti dalla precarietà. Bisogna fare proposte serie e capaci di risolvere le troppe diseguaglianze. Diritti civili e sociali viaggiano insieme, intimamente. Senza questo, non importa il campo largo».

Sempre a non rispondermi: due culture diverse, come quella progressista e quella moderato-centrista, devono continuare a stare insieme o devono rimanere in un rapporto dialettico? Due partiti o uno?
«Ho rispetto della dialettica che c’è nel Pd. Non spetta a me esprimere indicazioni o giudizi. Il mio ragionamento è più generale. Prima di vedere chi farà il capotreno bisogna costruire il treno e deciderne la destinazione. La sinistra esiste se è la casa in cui ognuno può realizzazione i propri sogni. Senza una identità, quella casa non c’è».

Ripeto: questo programma si realizza meglio con un partito unico di centro sinistra o con due realtà che si confrontano?
«Mi hanno scritto diversi ragazzi che hanno appena compiuto 18 anni e hanno votato per la prima volta. Cercano una politica capace di aiutarli a realizzare i loro sogni. Lo può fare solo un partito che abbia la forza di calarsi nel mondo reale e creare con esso una sintonia empatica e valoriale. Come si fa a interpretare i bisogni di un commerciante o di un lavoratore che ha il problema della casa e non riesce a sfamarsi? Si può rispondere a queste persone ancora con lo scudo dell’antifascismo? I giovani non riescono a dare a sé stessi le premesse della vita, non riescono ad essere indipendenti, ad avere una casa! Né è sufficiente agitare i diritti civili. Penso alla comunità Lgbtq+ che ha, come gli altri, i problemi della casa, della mobilità, della remunerazione. Si deve uscire dai dogmatismi e abbracciare la dimensione dei nuovi bisogni. Non più IO, ma NOI. Come diceva Berlinguer. Con umiltà, abnegazione e capacità di ascolto».

Almeno su questo mi risponda: l’alleanza tra Verdi e Sinistra durerà nel tempo o è destinata a sciogliersi a breve?
«Quando mi è stato chiesto di candidarmi da parte dell’alleanza ho accettato con l’obiettivo di non solo portare la mia storia, ma di una vastità di mondi dimenticati, invisibilizzati, trascurati. La politica deve ritornare ad essere l’arte capace di trasformare le disperazioni in speranza».

Devo rifarle la domanda: la alleanza tra Verdi e Sinistra durerà o è destinata a sciogliersi?
«Se l’alleanza ha portato a questi buoni risultati, bisogna rafforzare le ragioni che erano alla base di questo percorso. Elettrici ed elettori hanno dato una risposta chiara».

Qual è il grado di integrazione degli stranieri in Italia, e quale quello degli afrodiscendenti?
«Non può sfuggire il fatto che in Italia è ancora viva una deriva razzializzante che va avanti da tantissimi anni, che ha riguardato parimenti centrodestra, centrosinistra e anche chi vuole porsi al di fuori degli schemi, come i 5Stelle. Tutti hanno un punto in comune, che è stato la razzializzazione».

Quando? Dove? Come?
«Ma glielo ho già detto: le leggi che si sono alternate in questi anni, la Turco-Napolitano, la Bossi Fini, i Decreti Sicurezza in salsa Minniti-Gentiloni e quelli in salsa Conte-Salvini, il memorandum Italia e Libia. Tutti provvedimenti che hanno distrutto il modello dell’accoglienza e sfilacciato il tessuto virtuoso della cultura italiana. Quelle leggi hanno creato persone che vivono nell’invisibilità, donne che non possono fare visite ginecologiche perché non possono scegliere il medico di base, bambini nati in Italia diversi dai loro coetanei italiani».

Marx ha scritto che “[…] sviluppandosi il modo di produzione capitalistico, aumenta il volume minimo del capitale individuale, indispensabile per condurre un’impresa in condizioni normali”. Quali pensa siano le necessità della alla piccola impresa italiana, sempre alle prese con un difficile accesso al credito?
«Serve avere un piano generale sul tema del lavoro, non solo per i 4 milioni di lavoratori che fanno la fame, ma anche per le partite Iva e per garantire un giusto accesso al credito. Non si possono mettere in campo dei provvedimenti normativi se non si tiene conto della struttura attuale del nostro sistema produttivo. Non metto in dubbio le buone intenzioni, ma non si capisce la realtà delle persone. Ho incontrato la CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, ndr) in questi giorni. Mi hanno parlato dei loro problemi: dal bisogno di mano d’opera che non si trova a quello, terribile, del conto energetico. La politica deve ascoltare queste imprese. Non serve sventolare bandiere ideologiche senza che vi sia una partecipazione concreta delle imprese e dei loro bisogni.  Serve un piano nazionale per il lavoro, a 360 gradi!».

Piano che riguarda anche le banche e l’accesso al credito?
«Certo. Le aziende debbono essere accompagnate in quest’epoca di cambiamento. Non solo per l’accesso al credito, ma anche per la transizione digitale. Il modello produttivo deve cambiare ed essere più in armonia con la natura e l’ambiente. Ma se si chiede alle imprese di fare un’inversione da un modello produttivo ad un altro più moderno, bisogna assisterle. Così anche per il tema della formazione professionale».

Le piccole aziende vivono come i lavoratori sfruttati, ma senza nessun appoggio politico. Sono proletari sottopagati, ma nessuno li difende. Non avrebbero diritto anche loro a un salario minimo?
«Quello delle partite Iva è un problema che mi sta molto a cuore. Nel linguaggio storico sono titolari dei mezzi di produzione, ma in molti casi non lo sono affatto. Sono all’interno di mercati globali, ma non controllano la catena produttiva. Ne sono un ingranaggio fragile. Il piano per il lavoro deve garantire anche a loro una rete di protezione».

Cosa la spinge a fare politica?
«Lo faccio perché per troppi anni le istanze che abbiamo portato avanti non hanno trovato il giusto ascolto. Si ricorderà quando io mi incatenai a Villa Pamphili. Fui ricevuto da Conte, Catalfo, che era ministro del lavoro e dal ministro dell’Economia, Gualtieri. Tra le proposte che io misi in campo vi erano il Piano nazionale sul lavoro, che è il mio pallino insieme al tema della sicurezza sul lavoro, nonché la patente del cibo. Consideri che la filiera cibo dà lavoro a 4 milioni di persone, dai braccianti ai cassieri ai rider: è prima economia del nostro Paese. Mi fu risposto: GENIALE! ma poi nulla di fatto. Faccio politica per mettermi al servizio dentro la prospettiva del NOI».

Si considera un patriota?
«Assolutamente sì. Sono un patriota. Dobbiamo recuperare e riappropriarci questa nozione. Girando per le montagne dell’Emilia ho incontrato la figlia di una partigiana che mi ha ricordato come loro amassero la parola “patriota”. Una certa sinistra, rincorrendo il nuovismo non solo ha smarrito la propria identità, ma si è persa rispetto alla propria storia. Io mi ritengo un patriota nella prospettiva dell’internazionalismo. Sono progressista perché bisogna perseguire il benessere, non solo materiale ma anche immateriale. Sono conservatore nei valori dell’antifascismo e dell’antirazzismo».

Lei non parla mai di questioni personali.
«Cosa vuole sapere?».

Chi è lei.
«Sono un lustratore di scarpe, venuto in Italia dalla Costa d’Avorio, 22 anni fa. Ogni scarpa che lustravo, brillava. Quel riflesso era il mio sogno e mi ha portato qui in Italia».

Lei è un poeta.
«Dico la verità».

Anche io.
«Non parlo mai di me, perché non sono io il punto. Le posso raccontare che da ragazzo, nelle riviste francesi che leggevo, ritagliavo foto ed articoli che parlavano dell’Italia, della moda italiana, di cravatte e scarpe. Facevo dei foto-album, se li ricorda?».

Più o meno.
«Ecco, i miei album sono ancora lì, in Costa d’Avorio, con le cravatte alla moda negli anni Novanta. Ogni scarpa che lustravo, mi dicevo: andrò in Italia, un giorno. Quando misi piede qui alla ricerca della mia felicità, venni catapultato nella bruttezza della vita, per colpa delle norme disumane sull’immigrazione».

Poi?
«La storia di Aboubakar non esiste. Vive solo all’interno di una narrazione collettiva. Il mio sogno, mentre lustravo le scarpe, era lo stesso di tanti altri giovani di tutto il mondo. La mia storia è dentro la storia di tutti loro. Chi è Aboubakar? Non importa. Decliniamo il noi, non più l’io!».

Onorevole, è stato così bravo nel non dirmi nulla che non insisto.
«Io vivo a Roma, giro sulla metro e sugli autobus e mi pare la normalità. Se non si fa così non si può capire la preoccupazione dei pendolari, il bisogno di creare politiche della mobilità urbana per un contesto di minor inquinamento per les citoyens lambda, come dicono i francesi. Per chiunque».

Chi sono i suoi cari?
«Ho un figlio che ad ogni mio viaggio mi dice: “Papà va a fare libertà”. Mi brillano gli occhi quando penso a lui, ma non ne voglio parlare. Basta così».

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