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Quelle domande mancate a Zelensky e ciò che gli avremmo chiesto noi (di G. Gambino)

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Proprio mentre i tre più importanti quotidiani italiani si apprestavano a riportare con discreta enfasi le parole del presidente Volodymyr Zelensky per sostenere la battaglia a sostegno del popolo ucraino (“Non ci abbandonate, lottiamo per sopravvivere, la guerra sarà breve e vinceremo”), a tre nostri giornalisti inviati sul campo in Ucraina veniva di fatto impedito di poter svolgere il proprio lavoro. Una vicenda preoccupante che riguarda la libertà d’informare, certo, ma anche la democrazia stessa per cui gli ucraini combattono giorno dopo giorno con il nostro supporto, e la “lotta alle fake news” di cui Zelensky ha parlato nelle sue interviste urbi et orbi in Italia.

In questa misura di censura preventiva, ignorata in buona parte dai media italiani, esiste una contraddizione di fondo che dovrebbe far riflettere la nostra categoria sullo stato di salute dell’informazione. Mettiamo, allora, sin da subito i puntini sulle “i”: 1. È sacrosanto che l’Italia decida – passando per il Parlamento – di schierarsi in difesa dell’Ucraina contro la assurda, violenta e ingiustificata invasione russa, di cui questa settimana ricorre il primo anniversario. 2. È doveroso empatizzare con il popolo ucraino che negli ultimi 365 giorni ha subito una violenza inammissibile. 3. È giusto, in quanto europei, sostenere autonomamente la lotta per la libertà e democrazia degli ucraini, respingendo con fermezza il tentativo dell’aggressore di violare il sacro principio di sovranità nazionale, formulando al contempo una strategia di mediazione volta al cessate il fuoco e, in ultima istanza, alla pace. Non è tuttavia ammissibile tollerare alcun tipo di censura a danno dei nostri stessi giornalisti, che hanno il dovere di informare i cittadini sul conflitto in corso, dando ampio risalto a quanto accade sul fronte in maniera imparziale e riportando i fatti senza condizionamento alcuno.

Non è quello che invece è toccato subire ad Andrea Sceresini e Alfredo Bosco. Il 6 febbraio, infatti, di ritorno da un servizio realizzato sul fronte di Bakhmut, il ministero della Difesa ucraino ha notificato ai due giornalisti italiani la sospensione dell’accredito stampa, con ciò mettendo a rischio la loro libertà di movimento in Ucraina, specie nelle zone più calde del conflitto, e con la concreta possibilità di venire arrestati al primo posto di blocco. A Sceresini e Bosco era stato comunicato che avrebbero dovuto essere interrogati dall’Sbu, il servizio di sicurezza ucraino, ma quel colloquio, nel momento in cui scriviamo (20 febbraio), non è mai avvenuto. Nemmeno l’ambasciata italiana ha saputo dare loro formali spiegazioni, se non fornire ai due un foglio di via con il suggerimento di dirigersi quanto prima verso Kiev, dove sarebbero stati ascoltati dalle autorità. Ed è lì che si trovano dal 10 febbraio scorso. Senza aver più ricevuto un cenno da nessuno.

Tra le ragioni non ufficiali dietro il blocco dei due reporter italiani c’è il fatto che Andrea e Alfredo avessero in passato lavorato come inviati nelle repubbliche separatiste del Donbass per raccontare quello che all’epoca (2014) era un conflitto dimenticato. Fatto, questo, che avrebbe portato le autorità ucraine a bollarli come “collaboratori del nemico”, un’accusa che in zona di guerra può avere conseguenze molto serie. Del resto, come se non bastasse, stessa sorte (forse peggiore) è toccata qualche giorno più tardi a un altro giornalista italiano, Salvatore Garzillo, cui è stato persino impedito di entrare in Ucraina attraverso la frontiera polacca, poiché “non gradito”. Un’esperienza simile vissuta, a febbraio e aprile del 2022, da Lorenzo Giroffi, altro reporter italiano.

Questa storia, grave di per sé, mette a nudo il ruolo della stampa in un conflitto che è presto degenerato in una guerra delle parole. Dal 2014 se non parli dei russi come dei mostri vieni tacciato come filo-russo; viceversa se non parli degli ucraini come filo-nazisti sei filo-ucraino. Qual è il grado di libertà e democrazia per cui combattiamo ogni giorno, da un anno a questa parte, al fianco degli ucraini? Qual è il limite ultimo, per non scadere nella propaganda, nel fare da cassa di risonanza alle legittime istanze di un presidente il cui Paese è stato ingiustamente invaso? Perché non è considerato lecito domandare a quello stesso presidente il motivo del fermo dei giornalisti italiani e l’immediata restituzione della propria libertà a svolgere il lavoro di giornalisti? Il punto non sono i tre giornalisti italiani a cui è oggi stato impedito di fare il proprio mestiere in Ucraina. Del resto – ma non è certo questa la circostanza – si potrebbe obiettare che è persino legittimo, in una guerra, che esistano controlli e limitazioni sulla stampa nel caso in cui rischi di mettere in pericolo la vita delle persone, ad esempio riprendendo in video le postazioni militari e rivelando così posizioni sensibili che possono diventare facile bersaglio per l’aggressore.

In gioco, in questo caso, c’è molto di più: il principio di raccontare la guerra in modo equidistante e libero, senza condizionamenti. Perché se questo atto di censura preventiva passa inosservato la guerra (e non solo questa) verrà raccontata solo da chi fa propaganda, con i copia e incolla dei comunicati stampa, oltre a creare un pericoloso precedente nel limitare la libertà d’informazione.

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