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Home » Opinioni

“Vota Giorgia”, ovvero come i politici hanno perso il cognome

Immagine di copertina
Credit: AGF

Su cosa ci sia dietro il “detta Giorgia” che permetterà agli italiani di dare la preferenza alla presidente del Consiglio scrivendo solo il suo nome di battesimo al fianco del simbolo di Fratelli d’Italia si sono susseguite numerose dietrologie, ma cosa ci sia dietro è forse molto più semplice del previsto: un elemento pratico e funzionale in una campagna che Fratelli d’Italia ha fondato sullo slogan “con Giorgia”.

Tuttavia, proprio questa campagna e proprio la scelta dell’alias elettorale di Giorgia Meloni ci ricordano un fatto: i politici stanno sempre più spesso mettendo in ombra il loro cognome, puntando soprattutto sul nome di battesimo.

Se la cosa ha senz’altro precedenti anche in decenni lontani – si pensi all’ “I like Ike” di Eisenhower nel 1952 -, questa storia in tempi recenti ha toccato vertici sempre più alti: dal “meno male che Silvio c’è” di berlusconiana memoria, al #matteorisponde di Renzi, per non parlare delle miriadi di candidati sindaco che hanno puntato sul nome di battesimo a discapito del cognome. E non si tratta di qualcosa che riguarda solo l’Italia: se andiamo a vedere i loghi della campagna elettorale dei numerosi candidati delle affollate primarie dei democratici del 2020, ci accorgiamo facilmente come la netta maggioranza di loro, da Joe a Bernie passando per Mike, Amy e Tulsi, abbia preferito il nome di battesimo al cognome. Sorte vuole che Biden, vinte le primarie, per le presidenziali abbia poi puntato sul cognome.

Cosa ha portato a questa tendenza tanto diffusa? Da un lato probabilmente c’è una disaffezione generale verso la politica che ha spinto i candidati a porsi in rottura rispetto alle liturgie dei decenni passati e mostrarsi come persone più vicine possibili agli elettori, da chiamare appunto per nome. Ma non è tutto: la società di oggi, attraverso i social in primis, ha messo da parte l’intermediazione tra eletti ed elettori che in passato era costituita dai partiti stessi come dalla stampa, favorendo non solo la personalizzazione della politica, ma anche un linguaggio sempre più diretto dei politici verso i cittadini, divenuto dunque più colloquiale e che ha favorito l’uso del nome. Quante volte, in una diretta social abbiamo visto Renzi o Salvini rispondere direttamente a utenti che si appellavano loro chiamandoli “Matteo”? In tempi passati sarebbe stato inimmaginabile vedere cittadini rivolgersi a Fanfani o Togliatti chiamandoli Amintore e Palmiro.

Ma a proposito di tempi passati, quando nel 2012 l’allora presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti annunciò la candidatura a sindaco per l’anno successivo (varie vicissitudini lo portarono però a optare per la regione Lazio), nel commemorare Miriam Mafai, ricordò una loro conversazione in cui lei gli disse: “Zingaretti”, apostrofandolo così “perché i politici si chiamano per cognome”. Un ricordo di tempi passati, che peraltro poteva suonare come monito, visto che chi ha familiarità col PD romano sa bene che Zingaretti è uno dei politici più chiamati per nome in circolazione. A ogni epoca le sue usanze.

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