Il triste declino di Vittorio Feltri: da erede di Indro Montanelli a provocatore pro-Salvini
Guardandolo oggi in tv, purtroppo, vedo soltanto la pallida caricatura di un giornalista schierato. Un triste provocatore a gettone che ogni tanto sbrocca, e lo devi contenere. Se necessario. A meno che non ti faccia comodo. A meno che non sia funzionale al tuo racconto. In quel caso basta buttargli addosso un’altra pinta di benzina per farlo avvampare ancora un po’. Diventa rubizzo e dice parole in libertà. In quel tavolo da scopa kitsch con annessi improperi, mezze figure e figuracce che è diventata certa informazione televisiva. Eppure posso dire: io c’ero. Eppure ricordo molto bene quando Vittorio Feltri, 76 anni, sfoggiava un’invidiabile lucidità che oggi fatico a rintracciare nell’uomo.
Era il 1995, e mister “Chi se ne frega” vestiva i panni di direttore de il Giornale, testata con la quale ho collaborato, agli inizi. Maurizio Belpietro era il suo vice, l’uomo di macchina tuttofare. E Vittorione, col distacco del “Sciur padrùn da le bèle braghe bianche” (cit.), in totale souplesse, guidava la limousine col gomito al finestrino, avendo ereditato la testata nientemeno che da Indro Montanelli. Scriveva editoriali sagaci, i titoli d’apertura non avevano niente a che vedere con quelli che oggi Libero sfoggia con sorprendente orgoglio. Coltivava l’ironia e rappresentava al meglio (per i tempi) un centrodestra medio-borghese che strizzava l’occhio al Nord pur rappresentando l’Italia intera, e che vedeva in Silvio Berlusconi il Salvatore della Patria. Un centrodestra che, per intendersi, non si era ancora salvinizzato. Cioè non aveva ancora raggiunto il livello più basso della dialettica (eufemismo) politica.
Era Bossi semmai che ce l’aveva coi meridionali, ma attenzione: Feltri guidava l’auto della Casata, molto più ecumenica, di Silvio, che stava placido sul sedile posteriore vagheggiando il “Miracolo italiano”. Lui al massimo, in livrea, ogni tanto gli porgeva un Ferrero Rocher. Per chi non ha davvero fame ma soltanto “voglia di qualcosa di buono”. Poi è arrivato Salvini, che a colpi di cialtronate mediatiche, sempre più disperate da quando ha incautamente lasciato il Governo, ha fatto saltare il banco virando verso la comunicazione estremizzata. E Feltri, che è la sua guida intellettuale naturale, si adegua.
Anche di recente l’ha pubblicamente ma incautamente rimproverato: “Matteo, torna a fare quello che sai fare meglio: giocare sulla paura della gente”. Si è mai visto il proprietario del ristorante che rivela sfacciatamente ai clienti la ricetta dello chef? Ma tant’è. I due lavorano in sinergia. Anche per una (non) banale questione di mercato, dal momento che le pagine feltriane sono comprate soprattutto da quello sbrigativo elettorato imprenditorial-borghese del Nord, di mezza età, che gravita nell’orbita leghista. Di quella Lega che ha spostato il focus del marketing della paura dai meridionali (Bossi) ai migranti.
Però adesso il problema è un altro: andava difesa l’onorabilità lombarda (leggi: leghista) dopo la drammatica pagina legata alla gestione dell’emergenza Covid-19 da Attilio Fontana & Friends. E ieri sera, superbamente incalzato da Mario Giordano a Fuori dal coro, Vittorione l’ha fatto, alla sua maniera; cioè con le consuete quattro parole di troppo al tavolo della scopa. Eccole: “Perché io, te e altri dovremmo andare in Campania? A fare che cosa, i posteggiatori abusivi? … Il fatto che la Lombardia sia andata in disgrazia per via del Coronavirus, ha eccitato gli animi di molta gente che naturalmente è nutrita da un sentimento di invidia o di rabbia nei nostri confronti perché subisce una sorta di complesso di inferiorità. Io non credo ai complessi di inferiorità. Credo che i meridionali in molti casi siano inferiori”.
Il livello è questo. Se ti fermi al ragionamento di base, è una tesi (nei giorni scorsi ha detto qualcosa di simile anche Beppe Severgnini); se sul finire offendi indiscriminatamente, sei Vittorio Feltri. Quello patetico e gratuito dell’anno di grazia 2020. E a nulla è valsa la rintuzzata di Giordano, che ha quantomeno simulato di volerci mettere una pezza: “Non me li fare arrabbiare davvero, però! No direttore, non puoi dirmelo, questo!”. Seguito dall’impalcabile e definitivo: “E chi se ne frega, ma s’arràbbino… Chi se ne frega se s’arrabbiano”.
Con quel piglio da personaggio, col coté sgarbiano. Ma di Sgarbi ce n’è uno solo e anche lui a esternazioni di recente, in zona Covid-19, non sembra messo benissimo. Dal momento che la sparata di Feltri gli ha tirato addosso in giornata tante critiche da riempire la biblioteca di Alessandria d’Egitto (esiste sempre l’Ordine dei giornalisti, me lo confermate?), il nostro poco fa ha provato a metterci una pezza disperata su Twitter: “Mi pare del tutto evidente che il Sud e la sua gente siano economicamente inferiori rispetto al Nord. Chi non lo riconosce è in malafede. L’antropologia non c’entra con il portafogli. Noto ancora una volta che le mie affermazioni vengono strumentalizzate in modo indegno”. Così parlò Vittorio, che ai tempi del Giornale ricordo molto più ecumenico e infinitamente più rispettoso nei confronti del Meridione. Ma sarà un caso, naturalmente. È il nuovo “Miracolo italiano”.
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