Una vita al fronte armato di bisturi: così Gino Strada ha curato sei milioni di persone in tutto il mondo
Se n’è andato questa estate, proprio nel giorno in cui i talebani riconquistavano l’Afghanistan e realizzavano la sua ennesima, laica, profezia controcorrente. Perché Gino Strada non è mai stato un uomo per epigrafi, medaglie, pensierini edificanti.
Nessuno sapeva della sua malattia, sua moglie Teresa era scomparsa prima di lui, sua figlia Cecilia era in una barca in mezzo al Mediterraneo. Strada è rimasto fedele fino in fondo alla sua maschera burbera, non voleva santificazioni in morte, soprattutto da chi fino al giorno prima lo bollava come “estremista”, o “amico dei terroristi”. Gino Strada, classe 1948, da Sesto San Giovanni, confine di Milano, quella che fu chiamata “la Stalingrado d’Italia”.
Strada non fu mai personaggio ecumenico, santone buonista, “pacifista” da vetrina. Fu leader, polemista, combattente, moderno Savonarola, uno che amava sporcarsi le mani. Basta leggere le intensissime righe sul triage di guerra nel suo bellissimo “Pappagalli Verdi” (il suo primo best seller) per capire che per Gino, tutta la sua storia personale – dai movimenti ad Emergency – era scandita da una costante: stare da una parte. Non voler piacere a tutti, era capace di scelte solitarie, anche quando voleva dire “decidere chi vive e chi muore”. Fare il chirurgo di guerra per lui significava «Stare dalla parte di chi paga il prezzo delle guerre sotto le bombe, e non ha voce»…
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