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Il virus Orbán ha contagiato il Ppe (e l’Europa)

Immagine di copertina
Credit: Europarlamento

Sono lontani i tempi di Kohl e Merkel. Oggi il leader dei popolari Weber tifa per i muri anti-migranti sul modello Ungheria. E tanti saluti alla solidarietà Ue. Ma la crisi è iniziata con la guerra in Ucraina

Peccato che Viktor Orbán sia caduto in disgrazia, essendosi l’Ungheria schierata, unico Paese europeo, al fianco della Russia di Putin o comunque non abbastanza contro. Peccato, perché altrimenti potrebbe celebrare oggi il proprio trionfo.

Ex membro del Ppe, il presidente magiaro sta assistendo, con probabile compiacimento, alla progressiva orbánizzazione del suo ex partito, un tempo guidato da personalità come Helmut Kohl e Angela Merkel e ora appannaggio del bavarese Manfred Weber.

Weber, personaggio in ascesa della Csu, costituisce l’antitesi del merkelismo. Tanto la “kanzlerin” era aperta ai migranti e favorevole a politiche di inclusione e di welfare quanto il nostro rispolvera le ricette nazionaliste che hanno condotto l’Europa a un passo dal baratro.

Basti pensare alla crisi greca e al disastro del debito pubblico nei Paesi del Sud. E basti pensare ai rischi che corse l’euro nell’estate del 2012, prima che Draghi pronunciasse a Londra il noto «whatever it takes».

Ebbene, stiamo tornando indietro di un decennio. Addio all’Europa del Recovery Fund, addio all’idea di dover far fronte insieme ai cambiamenti epocali che stiamo vivendo, addio a ogni prospettiva di mutualizzazione del debito e bentornate chiusure, frontiere e addirittura «le recinzioni», le stesse proposte da Weber per far fronte al fenomeno migratorio.

Sembrano lontani anni luce i giorni in cui, dopo la tragedia del piccolo Aylan, Angela Merkel accolse in Germania oltre un milione di siriani. Sono lontanissimi i tempi in cui l’Italia, con il Governo Letta, aveva varato Mare Nostrum.

Oggi abbiamo un ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, Lollobrigida, che parla apertamente di «sostituzione etnica», un Mattarella costretto a definire «preistoriche» le norme che regolano le migrazioni e un Vecchio Continente che, sostanzialmente, ha poco o nulla a che spartire con l’idea spinelliana del Manifesto di Ventotene o con i propositi di pace e cooperazione che caratterizzarono la Dichiarazione di Schuman e i Trattati di Roma del 1957.

Spiace dirlo, ma l’invasione russa dell’Ucraina sta facendo venire al pettine i nodi del nostro stare insieme. Da oltre un anno, infatti, l’Europa non parla che di armi, sostegno sine die alle richieste di Kiev e sanzioni ai danni di Mosca.

Che ci si debba schierare, d’accordo, l’indignazione per quanto sta avvenendo è sacrosanta, un sostegno attivo a favore del più debole ha un suo perché, per quanto la vicenda russo-ucraina sia cominciata anche prima del 2014, ma che senso ha un’Europa che non parla mai di pace, che non assume alcuna iniziativa diplomatica, che non fa nulla per riflettere su una carneficina che la sta dilaniando? Ancora in era Trump, dunque abbastanza di recente, si parlava di difesa comune europea, ora si parla solo di contributi da versare alla Nato.

È scomparso il concetto di solidarietà, è venuta meno ogni idea di cooperazione e si prospetta un’avanzata nazionalista senza precedenti, con l’Italia, il Paese in cui ha avuto luogo la strage di Cutro, a fare da avamposto, essendo stati fra i primi a sperimentare la trasformazione di liberali e popolari nei principali sostenitori di una destra identitaria e alleata con soggetti tutt’altro che entusiasti del progetto europeo.

Più che di Unione europea, rischiamo di dover parlare di EuroNato, con la Polonia superstar e l’indebolimento dell’asse franco-tedesco. Sta trionfando il Gruppo di Visegrád e noi restiamo inerti, afoni, tristemente privi di dignità.

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