Usa, Unione Europea e il problema del debt ceiling (di N. M. Tritto)
Il 19 gennaio 2023 potrebbe essere ricordato come il giorno dell’inizio del default degli Stati Uniti: infatti, in quella data è stato ufficializzato il raggiungimento del debt ceiling, ossia del limite alla quantità totale di fondi che il governo federale statunitense è autorizzato a prendere in prestito sui mercati internazionali. In effetti, a partire dal 19 gennaio 2023, il Dipartimento del Tesoro sta utilizzando misure straordinarie per poter far fronte alle proprie obbligazioni finanziarie (stipendi, pensioni, spese militari, pagamento degli interessi sui titoli pubblici agli investitori, ecc.) e si stima che tali strumenti economici (e di conseguenza, la liquidità degli USA) si esauriranno entro giugno, con la conseguente necessità di dichiarare lo stato di insolvenza, qualora nel frattempo non sopravvenga un provvedimento legislativo che consenta al governo di superare questa impasse. Non vi è chi non veda la gravità di una tale situazione, che andrebbe a colpire un’economia mondiale già fiaccata negli ultimi anni da altre gravissime crisi (quali la pandemia da Covid-19 e la guerra russo-ucraina).
Per quali ragioni gli Stati Uniti hanno istituito il meccanismo del debt ceiling? Ed esso può essere paragonato ai limiti alla crescita del debito pubblico degli Stati membri dell’Unione europea? La risposta a queste domande è strettamente correlata all’analisi degli effetti (positivi, negativi o neutri) a livello macroeconomico di tali politiche economiche, caratterizzate da un marcato contenimento del debito pubblico.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, in seguito alla Guerra civile, nel 1868 si decise di approvare il XIV emendamento alla Costituzione per stabilire espressamente che la validità del debito pubblico non poteva mettersi in discussione (e che quindi andava necessariamente onorato). In seguito, nel marzo del 1939, alla vigilia dell’intervento nel secondo conflitto mondiale, il presidente Roosevelt ottenne un limite al debito pubblico federale pari a 45 miliardi di dollari (limite che sarebbe poi aumentato negli anni successivi fino a giungere alla esorbitante ed attuale cifra di 31.400 miliardi di dollari).
Com’è chiaro, quindi, il debt ceiling è uno strumento di sorveglianza parlamentare rispetto alla crescita incontrollata della spesa pubblica e di evidente responsabilità fiscale per il governo; tuttavia, anche a seguito delle riforme introdotte nel ciclo del bilancio statunitense sin dal 1974, tale meccanismo ha perso parte della propria rilevanza, riducendosi ad un relitto del passato che tuttavia può provocare gravi criticità nel sistema contabile americano (si pensi, infatti, al pericolo dello shutdown ossia all’impossibilità di finanziamento delle spese federali con conseguente cessazione dei servizi pubblici).
Se la volontà di introdurre un limite alla crescita del debito pubblico ha trovato origine negli Stati Uniti sostanzialmente nella necessità di una (tendenzialmente) rigida disciplina fiscale, nel sistema europeo a tale scopo si è aggiunto pure quello relativo alla creazione di un’area valutaria ottimale. In effetti, sin dal trattato di Maastricht del 1992, si sono stabiliti dei criteri di convergenza degli Stati membri per l’introduzione di una moneta unica paneuropea: in particolare, oltre al controllo dell’inflazione ed alla stabilità dei tassi di cambio e dei tassi di interesse interni, vennero ritenute fondamentali la sostenibilità del debito pubblico e del disavanzo pubblico degli Stati, quali elementi imprescindibili al fine di raggiungere l’unione monetaria, in una misura non eccedente un rapporto rispetto al PIL del 3% per i deficit annuali di bilancio e del 60% per il totale dello stock di debito pubblico lordo accumulato.
Come si vede, il progetto che poi ha dato vita all’euro si fonda su un rigido controllo della spesa, che è parso sicuramente più efficace rispetto al debt ceiling statunitense, anche se non sono mancate critiche alla politica economica dell’Ue negli ultimi anni, specie con riferimento alla crisi dei debiti sovrani del 2010.
Meccanismi limitativi alla crescita del debito pubblico, poi, sono altresì presenti in vari Stati ed organizzazioni internazionali, come ad esempio la Germania, la Danimarca, la Polonia, il Pakistan, la Malesia, il Kenya, la Namibia e l’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (creata nel 1994 e dotata di una valuta comune, il franco CFA).
La presenza di limiti alla crescita del debito pubblico costituisce quindi una modalità di gestione della politica economica presente in numerosi ordinamenti. Se l’origine dell’istituto si può rinvenire nella necessità di un controllo parlamentare sulla spesa e l’indebitamento da parte dei governi, a tale elemento si aggiunge altresì un aspetto correlato alla “uniformazione” delle regole di gestione della finanza nell’ambito di progetti sovranazionali (sia compiutamente realizzati, com’è il caso dell’euro, che in fieri, come nel caso della moneta unica dell’Africa occidentale).
Si può tuttavia rilevare come la previsione di “tetti” numerici all’indebitamento appaia poco efficace, anche per l’ovvia considerazione che un vincolo, per risultare adeguato ed utile, deve necessariamente essere flessibile; e tale obiettivo può raggiungersi con meccanismi che prevedano un aggancio del tetto alla crescita dell’indebitamento rispetto ad indicatori oggettivi della crescita di uno Stato (quali, in primis, il PIL). Pertanto, se la disciplina fiscale e l’evidente sostrato democratico dell’istituto della limitazione normativa alla crescita del debito pubblico appaiono evidenti, appare altrettanto chiara la necessità di evitare di creare “camicie di forza” slegate dalla considerazione del ciclo economico dei singoli Stati e a livello internazionale, che porterebbero – come purtroppo si sta verificando negli Stati Uniti – a situazioni di crisi aventi gravi riflessi sull’economia mondiale.
*Sintesi di un più ampio saggio che verrà pubblicato sul prossimo numero della Rivista della Corte dei conti