Il golpe mediatico (con fanfara) di Trump
Tutto si poteva immaginare, nella notte elettorale americana, tranne questo: che un piano eversivo preparato con cura minuziosa per mesi, dettaglio dopo dettaglio, argomentazione dopo argomentazione, potesse ancora cogliere qualcuno di sorpresa. Tuttavia è accaduto, con una cerimonia (auto) declaratoria, tutta sfavillante di latta – celebrata in diretta tv davanti al mondo – accompagnata dalla fanfara presidenziale, quando ad urne aperte Donald Trump ha proclamato la propria vittoria.
Il presidente uscente ha parlato esplicitamente di “brogli”. Subito dopo ha indicato, per dirimere il conflitto che lui stesso ha creato, il suo campo di battaglia preferito, il suo luogo arbitrale congeniale – già predisposta da tempo – quella stessa Corte Suprema dove nell’ultimo anno ha avuto cura (nominando tre giudici costituzionale conservatori) di precostituire una maggioranza a se stesso favorevole. È la più classica cronaca di una morte annunciata: è un golpe mediatico con fanfara, in diretta tv.
Trump ha immaginato da mesi di trasformare il voto postale (dove era in svantaggio irrimediabile) in spazzatura, lo ha persino annunciato. Poi ha predisposto con studio minuzioso il suo campo da gioco truccato, e infine ha acceso la miccia con questa liturgia pomposa, imbandierata e circense. Trump sceglie il colpo di teatro per dar fuoco alle polveri, dichiara la vittoria a urne aperte, costruisce una realtà parallela in cui torna sul terreno dove nessuno può tenergli testa: lo scontro, la lotta nel fango, la fiction. Se tutto questo può accadere è perché questo è lo scenario ideale in cui Trump può contestare il risultato, qualunque esso sia. Potrebbe aver vinto, o perso, negli swing states che decidono tutto: ma di certo ha i titoli per considerarsi vincitore morale.
Era indietro nei sondaggi, ha rimontato clamorosamente, ha messo il suo corpo in campo, fingendosi un re taumaturgo guarito dal virus a colpi di Regeneron. Poi – e questo è stato il suo merito – è riuscito a portare nella battaglia il corpo dei suoi sostenitori. Quindi ha smaterializzato il punto di forza dei Democratici, il voto postale differito, con una campagna di discredito di lungo corso. Quando ha pronunciato queste parole mancavano ancora gli swing del nord-est, Michigan e Pennsylvania, e aveva perso in Arizona: ma certo ha realizzato una grande campagna di rimonta. Al contrario, il suo avversario Joe Biden, si è quasi “nascosto”negli ultimi giorni di campagna, sostituendo il suo volto al botulino con il carisma di Barack Obama e la grinta di Kamala Harris: malgrado la sua campagna cadaverica, al momento della conferenza stampa di Trump, Biden aveva sei punti di vantaggio in termini di voti assoluti, e potrebbe poteva ancora portare a casa Michigan e Pennsylvania (proprio grazie al voto dei vecchi bianchi come lui). Nel resto del campo di battaglia, a parte l’Arizona dove è stato trainato da un astronauta, il candidato democratico ha perso tutto.
Adesso l’America precipita in un conflitto istituzionale senza precedenti, con lo scrutinio della Pennsylvania che potrebbe durare fino al 6 novembre, con uno dei contendenti che si autoproclama vincitore da un salone della Casa Bianca, e una Corte Costituzionale con una maggioranza favorevole al contendente che si è appena proclamato vincitore. Questo scenario non è nemmeno paragonabile alla disputa sulla Florida di venti anni fa, ai tempi della battaglia sulla vittoria di Bush. Viceversa il Senato e la Camera potrebbero avere in ogni caso una maggioranza democratica. Quello era un conflitto drammatico, ma circoscritto ad un singolo Stato, questa è una crisi di livello federale, un colpo al cuore della democrazia americana. La notte americana non è finita: è appena iniziata.
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