Tra appartenenza e fede, ecco perché il tifoso di calcio non è solo uno spettatore (di S. Mentana)
Alzare un coro per il proprio giocatore preferito, soffrire, anche fisicamente, per ciò che saranno in grado di fare undici giocatori che probabilmente nemmeno sanno della nostra esistenza. Urlare a squarciagola perché un pallone è finito dentro la rete. Cosa ci porta a fare questo? Lo facciamo perché siamo tifosi, è naturale. Ma al di là di questo dato ben consolidato, chi siamo noi tifosi?
E’ giusto provare a scavare un po’ più in profondità, perché andando più a fondo non c’è alcun senso nel soffrire, gioire, essere preoccupati e arrivare a star male fisicamente per qualcosa che apparentemente neanche ci riguarda direttamente. La nostra vita non cambia in alcun modo se una squadra vince o perde, il giorno dopo la nostra vita, con le sue gioie e i suoi dolori che prescindono dal calcio, andrà avanti. Eppure, provare a dare questa spiegazione razionale non ha alcun senso. Perché siamo tifosi, e il tifo è una fede.
Ma anche qui, la cosa si complica ulteriormente. Perché la fede per antonomasia è quella religiosa, e la religione in generale si basa sull’esistenza di un’entità superiore, sul soprannaturale, su cosa succede dopo la propria esistenza terrena. Il calcio non si basa sull’esistenza di una divinità o su elementi soprannaturali, non promette alcuna vita eterna e un goal della propria squadra del cuore non darà alcuna salvezza alla propria anima. Il calcio è uno sport estremamente razionale. Anche se non ha quegli elementi di totale oggettività di gare come i 100 metri, in cui tutto si risolve in 10 secondi nei quali vince chi arriva primo, si basa su una logica facilmente spiegabile. Vince chi segna un goal più dell’altro, nel frattempo può accadere di tutto, puoi giocare bene, male, possono esserci errori dell’arbitro, papere del portiere, espulsioni e ammonizioni, ma si continua a vincere segnando un goal in più dell’avversario.
Allora che fede è? Forse la stessa che si tributa a un’ideologia politica, al proprio gruppo musicale preferito, al personaggio popolare di turno? No, assolutamente. Molti di questi sono innamoramenti passeggeri, può capitare che si cambi, magari di poco, l’ideologia politica, o che il proprio mito di una volta si depositi tra i ricordi. La squadra di calcio resta. E’ appartenenza pura.
Ma questa appartenenza viscerale, come si forma? La squadra di calcio si può scegliere, ma spesso è ereditata dalla famiglia o legata al luogo in cui si è nati o cresciuti. Spesso è un tratto identitario, questo senza dubbio da tempi remoti, in cui invece che allo stadio il tifo si faceva negli ippodromi dell’Impero Romano e le fazioni, che rappresentavano spesso strati sociali diversi della città, non si limitavano al sostegno della propria parte, ma non esitavano a lasciarsi andare in scontri, come avvenne a Costantinopoli nel 532 con la rivolta di Nika, in cui le fazioni dei Verdi e degli Azzurri finirono per unirsi contro il potere imperiale. Sì, il tifo può talvolta sfociare in violenza, in fanatismo, avere infiltrazioni non strettamente legate al calcio, ma questo è un altro discorso.
Una fede, ma non una religione, un’appartenenza. Sicuramente qualcosa che influenza gli umori e gli stati d’animo di chi vi aderisce. Pier Paolo Pasolini ha definito il calcio “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, “rito nel fondo”, “evasione”. Eppure la ritualità, scevra dal significato religioso della parola, è esattamente l’opposto dell’evasione, è un insieme di regole, azioni determinate. Evidentemente non nel tifo, intorno a cui comunque negli anni è nata una mitologia. L’arrivo allo stadio, il panino con la porchetta al camion-bar, il caffè Borghetti, i cori, le esultanze, gli striscioni, le frasi lanciate verso il campo che assumono talvolta un significato poetico di fronte all’epos del calcio.
Sì, il tifo è anche, se non soprattutto, un rito. Questo è ciò che rende un tifoso diverso da uno spettatore, e solo con il calcio potrebbe succedere. Un campo che può essere visto dal vivo da migliaia di persone, novanta minuti nei quali, al netto della razionalità del regolamento (si vince segnando un goal più dell’avversario), può succedere di tutto tra mille variabili umane e durante. Novanta minuti in cui il tifoso può soffrire, gioire, deprimersi ed entusiasmarsi in un solo incontro.
Che si tratti di fede, di ragione, di rito, la realtà è che forse non importa neanche più di tanto. Il tifoso di calcio è prima di tutto un tifoso, una categoria a sé stante, che magari non vale neanche la pena mettersi a cercare di definire. Forse neanche a noi tifosi importa tanto sapere cosa siamo. Magari siamo creature semplici, ma alla fine ci sta bene così.
Leggi anche: 1. Tra superleghe e allargamenti, ecco come è aumentato il divario tra campionati europei 2. L’ipocrisia della UEFA: si scandalizza per la Superlega ma da anni cavalca il calcio del business