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La terza era della globalizzazione: come sarà il nuovo mondo dopo la guerra in Ucraina

Immagine di copertina
Credit: AFP/Ray Stubblebine

L’invasione russa segna l’inizio di una fase storica, in cui i Paesi commerciano solo con chi condivide i loro valori. E le democrazie in crisi si riscoprono di colpo più forti

L’invasione russa dell’Ucraina sarà uno di quei momenti – come la caduta del Muro di Berlino o gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 – che segnano la fine di un periodo della storia e l’inizio di uno nuovo. Ma cosa cambierà, nel futuro che ci attende? Quel che è certo è che stiamo entrando in una nuova fase della globalizzazione, mentre vi sono meno certezze su cosa ciò significhi per le democrazie del mondo. La prima fase della globalizzazione è iniziata negli anni Ottanta, con la caduta del Muro di Berlino e il riconoscimento che il sistema chiuso dell’Unione Sovietica non poteva competere economicamente. In questa prima fase euforica della globalizzazione sono sorte nuove democrazie, dall’Estonia alla Polonia, dal Sudafrica al Brasile. I Paesi che allora erano più poveri, come la Cina e l’India, hanno aperto le loro economie, e si pensò che man mano che sarebbero diventati più ricchi sarebbero diventati anche più democratici. Qualcuno ha creduto che fossimo arrivati alla Fine della Storia e che la democrazia liberale, fondata su un’economia capitalista, fosse ormai l’unico modello politico possibile. Sembrava anche che fossimo vicini al raggiungimento di una sorta di pace capitalista, in cui gli Stati sarebbero stati talmente occupati nel fare soldi che non avrebbero avuto tempo – o interesse – per fare la guerra.

«Due Paesi che hanno entrambi un McDonald’s hanno mai combattuto una guerra l’uno contro l’altro», dichiarò l’editorialista del New York Times Thomas Friedman nel 1996. Ma la teoria del McDonald’s è stata definitivamente sepolta dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: in entrambi i Paesi, infatti, ci sono ristoranti McDonald’s, o almeno c’erano fino all’inizio della guerra. È chiaro che la globalizzazione non è finita. Il conflitto in Ucraina, con le sue immagini che circolano in tempo reale sui social e le immediate ripercussioni sul prezzo del gas, ci ricorda che – che piaccia o meno – viviamo in un mondo profondamente interconnesso. Il significato e la forma della globalizzazione, però, stanno cambiando. Per capire come, bisogna considerare le fasi che questo fenomeno ha attraversato finora.

La prima fase, la più ingenua, si è conclusa con gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, quando apparve evidente che molte aree del mondo non erano disposte a essere assorbite in un mondo globalizzato sulla base di condizioni stabilite a Washington e Bruxelles. E quel rifiuto del modello occidentale liberale non si limitava all’Islam radicale: nuove forme di populismo di destra – come la Brexit nel Regno Unito o movimenti xenofobi e nazionalisti in Ungheria, Polonia, Francia, Italia e negli Stati Uniti con Donald Trump – sono state caratterizzate da una comune sfiducia e rabbia verso le élite globali. La globalizzazione aveva trascurato l’importanza della cultura e il costo umano di un rapido cambiamento economico. Si era fondata sulla classica visione economica del “vantaggio comparativo”, per cui gli Stati Uniti – e in una certa misura l’Europa – acconsentivano alla delocalizzazione all’estero di milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero perché gli stessi beni potevano essere prodotti a un prezzo più basso altrove.

Ma così è stata completamente sottovalutata la devastazione umana di una generazione di lavoratori sacrificata e svalutata, nonché l’effetto corrosivo della crescente disuguaglianza economica prodotta dalla de-industrializzazione. Ciò ha aperto la strada a una forma di etno-nazionalismo, incarnato da personaggi come Vladimir Putin, Victor Orbán e Donald Trump ma anche Recep Erdogan e Narendra Modi. Di contro, molte grandi democrazie, dall’Europa agli Stati Uniti, sono apparse stanche, come se avessero perso la fiducia nella democrazia stessa. Tanto che il duro potere autocratico di Xi Jinping in Cina è sembrato più efficace nella lotta contro il Covid rispetto a quanto è stato fatto nella maggior parte delle democrazie occidentali. E molti partiti di destra in Occidente si sono lasciati attrarre dal nazionalismo aggressivo di Putin, più che dall’approccio tecnocratico dei governi democratici. L’idea liberale, ha detto il presidente russo, era diventata «obsoleta».

In questa seconda fase della globalizzazione il sistema economico interconnesso ha rafforzato i Paesi autocratici, consentendo loro di diventare più aggressivi e ribaltando di fatto l’idea della “pace capitalista”. Putin ha invaso la Georgia e la Crimea. La Cina ha deportato un milione di uiguri nei campi di rieducazione e ha rivendicato varie isole nel Pacifico. L’Arabia Saudita ha ucciso i suoi dissidenti e ha fatto la guerra in Yemen. A tutto questo i Paesi democratici – dipendenti dal commercio cinese, dal gas russo e dal petrolio saudita – sono stati incapaci di rispondere.

Quando lo scorso febbraio Putin ha ammassato truppe ai confini dell’Ucraina, la superiorità militare della Russia rispetto all’avversario era netta. Non solo: in quelle stesse settimane l’Europa occidentale faceva i conti con l’aumento dei prezzi dell’energia. Sembrava perciò improbabile uno schieramento compatto contro il Cremlino fra i 27 Paesi dell’Ue, più gli Stati Uniti, il Giappone, l’Australia e altre democrazie. E invece sono successe tre cose che hanno sorpreso il mondo.

In primo luogo, gli ucraini hanno offerto una resistenza impressionante e coraggiosa che ha ricordato a un Occidente scoraggiato che la democrazia e la libertà sono valori per i quali vale la pena combattere. In secondo luogo, l’Europa e gli Stati Uniti hanno sfruttato le settimane precedenti l’invasione per condurre un lavoro diplomatico volto a dar vita a una potente risposta unitaria all’aggressione russa. L’Unione europea – indebolita dopo la Brexit – ha come di colpo ritrovato la propria identità. Al punto che persino Svezia e Finlandia ora stanno valutando l’adesione alla Nato che il presidente Trump, ai tempi, aveva allontanato. La terza cosa che è inaspettatamente accaduta è che le ricche democrazie hanno deciso di utilizzare il sistema bancario internazionale per punire la Russia, congelando la maggior parte dei suoi 630 miliardi di dollari di riserve estere detenute nelle banche occidentali. Finora molti osservatori avevano ritenuto che gli enormi surplus commerciali di Russia e Cina e l’ingente debito sovrano nei confronti dei Paesi occidentali avrebbero agito da leva in loro favore in situazioni di conflitto. Gli ultimi dieci giorni invece hanno dimostrato che quella leva funziona anche a rovescio: per chiudere il rubinetto dell’ossigeno finanziario a Mosca. E il ritiro dalla Russia di società di carte di credito come Visa e Mastercard, ma anche di Apple Pay e Paypal, ci dice che in un sistema economico digitalizzato i centri della finanza e della tecnologia hanno a disposizione potenti armi.

Siamo entrati dunque in quella che potrebbe essere chiamata la terza fase della globalizzazione. Una fase in cui il commercio può essere plasmato da alleanze strategiche che portano i singoli Paesi a fare affari solo con quei Paesi di cui condividono i valori di base. Il Covid prima e la guerra poi, dunque, ci hanno ricordato quanto può essere pericoloso dipendere eccessivamente da altri per materie prime, energia e tecnologia. È sufficiente questo per rendere possibile l’idea di una pace capitalista e democratica? Ecco, questo è ancora tutt’altro che chiaro. Putin oggi è come un animale messo alle strette, e di conseguenza è estremamente pericoloso. Ricordiamoci che il Cremlino dispone di armi potenti – non solo quelle nucleari, ma anche quelle informatiche e biologiche – che non ha ancora usato. E, certo, a differenza di quanto si credeva durante la prima fase ingenua della globalizzazione, la democrazia non è la conseguenza inevitabile della crescita, ma qualcosa che va scelto e per cui si deve combattere. Tuttavia allo stesso tempo l’effettiva realizzazione del modello democratico sembra oggi molto più probabile.

Al contrario, la follia autodistruttiva che ha portato Putin a invadere l’Ucraina ha gravemente screditato il modello autoritario. Il governo di un solo uomo – circondato da yes men e isolato da critiche e opinioni opposte – conduce quasi sempre al disastro. Anche la tanto decantata politica anti-Covid di Xi Jinping adesso è in crisi, con il vaccino cinese – imposto per ragioni nazionalistiche in assenza di un dibattito e di un’informazione trasparente – che si è rivelato molto meno efficace dei vaccini sviluppati negli Stati Uniti e in Europa. In conclusione, la democrazia non sarà più un traguardo inevitabile, ma è certamente più forte e attraente di quanto non fosse un mese fa.
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