Chi se ne fotte e quegli sciacalli che hanno fatto tamponi falsi ai campani
Di furbi e approfittatori, in questa epidemia, ne abbiamo visti tanti. Da quelli che hanno approfittato perfino di un tampone positivo per farne un telenovela su Instagram con marchetta allo sponsor a quelli che si chiamavano “esperti” e sono diventati esperti di frasi ad effetto, per uscire nei titoli di qualche giornale. Poi ci sono gli sciacalli. Quelli che in ogni disgrazia sentono l’odore della carcassa lontana chilometri e dopo poco sono già lì che fanno a brandelli il cadavere. Che intravedono possibilità di guadagno dalla disgrazia, dalla paura, dalla morte.
L’inchiesta di TPI sulla truffa dei test Covid falsi in Campania è una fotografia perfetta e terribile di questi sciacalli. Un’organizzazione ben strutturata, persone con diversi ruoli e competenze che facevano “tamponi fuffa” con macchinari destinati a scovare malattie delle vacche. Tamponi che ovviamente erano sempre negativi e che hanno fatto circolare chissà quanti positivi inconsapevoli, che avranno infettato altre vittime inconsapevoli in questo circuito silente e criminale che “gli sciacalli” hanno creato. In fondo, un modo “pulito” di guadagnare seminando morte.
Un metodo che parrebbe lontano da quello della camorra rumorosa, vistosa, quella degli spari e dei morti per strada. Ma in fondo, un metodo neppure così diverso. Non servivano le pistole, nella truffa dei tamponi, perché ad uccidere è stata la fiducia, prima ancora della paura. La fiducia che i cittadini cercano nella scienza, nei medici, nei tecnici di laboratorio e che in questa storia era ingenuamente riposta in un gruppo di criminali per cui il virus era un’opportunità di guadagno tanto ingegnosa quanto facile.
“Che me ne fotte, io gli facevo il tampone già usato e gli dicevo… è negativo guagliò”, diceva uno degli indagati. Che gliene fotteva. Lui si intascava i suoi 50 euro per una falsa diagnosi, poi se qualcuno finiva sotto terra mica erano fatti suoi. Il virus mica ha un mandante, mica lascia polvere da sparo sui vestiti, mica se la canta.
Se la sono cantata, però, le intercettazioni. E quelle non lasciano scampo. Raccontano il cinismo con cui si è agito e raccontano, in fondo, quello che è parte dell’umanità in una guerra, in una pandemia, in una disgrazia. Un parte incapace di sentirsi un tutto, di capire che quello che fa l’altro oggi ci riguarda più che mai. Di realizzare che non c’è più nulla di imprudente e sconsiderato fatto altrove che non abbia un impatto sulle nostre vite.
Il pipistrello cinese e Luis Sepulveda hanno avuto forse milioni di passaggi intermedi, di link, di diramazioni, ma alla fine si sono incrociati. Chissà quanti di quei passaggi intermedi sono stati una distrazione, un atto di menefreghismo, un’uscita evitabile, un’imprudenza pensata. Bastava interrompere quella catena di avvenimenti e oggi Sepulveda, magari, starebbe scrivendo suo nuovo libro. E così tanti morti come lui.
Bastava un “chi se ne fotte” in meno. Ma qualcuno, purtroppo, se ne fotterà sempre. Perché non si sente parte di un tutto o, peggio, perché da quel tutto può perfino guadagnare.
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