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Lettera a una ragazza che non c’è più

Immagine di copertina
Credit: AP

Sfruttati. Manganellati. Etichettati come apatici. Ma i giovani avrebbero solo bisogno di essere ascoltati.

Molto si è discusso e si continuerà a discutere a proposito della ragazza di 19 anni che si è tolta la vita in un bagno dello Iulm di Milano. Si è impiccata, lasciando una motivazione tanto assurda quanto disarmante: «La mia vita è un fallimento».

E allora, imitando la furba Chiara Ferragni, che sul palco dell’Ariston ha letto una lettera a se stessa bambina, ci vien voglia di scrivere una lettera a questa ragazza, con l’auspicio di poter contribuire, nel nostro piccolo, a indurre altri suoi coetanei che si trovano nella medesima condizione a non compiere un gesto così straziante e irreparabile. 

Cara Anna, per rivolgerci a te utilizziamo un nome di fantasia, bello come solo le cose semplici sanno essere. La tua storia ci lascia senza parole, proprio perché ci interroghiamo sulla fragilità umana e su quanti aspetti delle nuove generazioni non abbiamo capito.

Ci interroghiamo su una società resa sempre più invivibile dalla scomparsa dei partiti, dal declino delle istituzioni, dal venir meno di famiglie solide e coese, dal cattivismo dilagante e dall’ansia da prestazione che investe una generazione bersagliata da richieste sempre più opprimenti. 

Un grande sociologo, Zygmnunt Bauman, ha analizzato la cosiddetta «società liquida» ma cominciamo a pensare che il suo pensiero, per quanto profondo, non basti a comprendere il disastro contemporaneo.

Qui non si tratta più, infatti, della disarticolazione dell’assetto politico, e nemmeno della progressiva scomparsa dei corpi intermedi; qui è in ballo la vita stessa, la dignità delle persone, il loro futuro, in un contesto che non ha alcun rispetto per la fragilità, l’incertezza, la paura di non farcela in una società che non perdona né l’errore né il cedimento. 

A 19 anni nessuno dovrebbe pensare alla morte. Se ne dovrebbe parlare al massimo per piangere la scomparsa di un nonno o di un parente caro, ma a quell’età bisognerebbe pensare unicamente alla vita e invece non è così.

Abbiamo ascoltato vari interventi di ragazze e ragazzi che nelle nostre università hanno approfittato di cerimonie importanti per denunciare un sistema insostenibile, basato su un nozionismo asfissiante, su un predominio dei voti sulle conoscenze, su una furia escludente in sintonia con un quadro complessivo di guerra, in cui non c’è pietà per chi si attarda, non si punta a recuperare i più deboli e a portare avanti chiunque, non si attuano minimamente i principi costituzionali ma, al contrario, ci si basa sul trionfo del liberismo spinto all’estremo. 

Solo il Papa, negli ultimi anni, ha avuto il coraggio di gridare che «questa economia uccide», che un modello socio-economico che non mette al centro la persona non è ammissibile, che nessuno deve sentirsi un fallito se ha bisogno di più tempo per conseguire i propri obiettivi.

E invece non è la prima volta che un ragazzo o una ragazza si arrende, lasciandosi travolgere dal senso di inadeguatezza, dal timore di non essere accettata per come è, dal terrore di non farcela o dalla sofferenza per il fatto di vedere le proprie competenze e il proprio impegno calpestati da una scuola fondata unicamente sulla prestazione o da un mondo del lavoro in cui i salari sono letteralmente indegni. 

Ci sono, per fortuna, anche casi di salvifica ribellione. Pensiamo, ad esempio, alla giovane Ornela Casassa, protagonista di uno video diventato virale nei giorni scorsi, che ha avuto il coraggio di non accettare uno stipendio vergognoso e di pretendere una paga che le consentisse di vivere dignitosamente.

Il fatto che una giovane ingegnera si domandi dove siano la sinistra e i sindacati di fronte a questo scempio dovrebbe, tuttavia, far scattare l’allarme. È qui, difatti, che la «società liquida», intesa nel senso di Bauman, e il dolore psicologico delle nuove generazioni si intrecciano, in una miscela perversa di ferocia, rabbia e rassegnazione. Stiamo perdendo tutto, a cominciare dalle prospettive per il domani, come ben testimoniano i dati allarmanti che denunciano una crisi demografica sulla quale nessuno interviene. 

L’altra tendenza, ormai consolidata, in una certa intellighenzia, presente purtroppo anche a sinistra, è poi quella di coprire di insulti i giovani qualunque cosa dicano e facciano.

Non che non abbiano limiti e difetti, sia chiaro, ma abbiamo ancora in mente le manganellate cui sono stati sottoposti qualche mese fa alla Sapienza, quando si opponevano a un discutibile convegno sul «capitalismo etico», con ospiti due noti esponenti della destra, e non siamo certo rimasti indifferenti di fronte alle offese cui sono stati sottoposti per aver occupato la facoltà di Lettere, sempre alla Sapienza, per chiedere la revoca del 41 bis ad Alfredo Cospito. Ora, si può essere d’accordo o meno, ma definirli apatici, disinteressati e privi della benché minima passione civile è semplicemente una falsità. 

E così, nel luogo-simbolo del nazional-popolare e della leggerezza, Sanremo, abbiamo assistito a un fenomeno che buona parte della stampa ha ignorato o quasi: il desiderio di esprimere se stessi di una generazione che si è presa il palco parlando d’amore in tutte le sue forme, ponendoci, ancora una volta, di fronte alla nostra arretratezza.

Non abbiamo mai pensato che la società sia, per forza, migliore della classe dirigente chiamata a guidarla e a rappresentarla; fatto sta che dai diritti civili alla lotta al razzismo, dal bisogno di protagonismo all’ascolto e accoglienza delle novità, compresi i social, demonizzati al di là di ogni logica, su quel palco l’Italia di domani ha avuto piena cittadinanza, in Parlamento no. 

Cara Anna, tu purtroppo non ci sei più, ma noi pensiamo che l’unico modo per onorare la tua memoria sia batterci affinché la scuola e l’università, prim’ancora della politica, prendano per mano chi ha bisogno di una carezza e di un sorriso per andare avanti, affinché il lavoro consenta a ciascuno di costruirsi la vita che desidera e affinché nessuno venga giudicato per i capelli che porta o per l’abito che indossa. Dovrebbero essere banalità, ma sappiamo che non è così.

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