Il dibattito surreale della politica italiana su Stellantis
Dopo anni di sonno totale, nelle ultime settimane la politica italiana si è improvvisamente accorta che Fiat è diventata francese e che il suo futuro nel nostro Paese è in bilico. Meglio tardi che mai. Il dibattito che ne è scaturito, tuttavia, fa cadere le braccia: i partiti stanno mettendo in mostra tutta l’impreparazione sulle vicende di Stellantis accumulata in questo lungo tempo trascorso lontano dalle fabbriche. Vale per la sinistra come per la destra.
Ad esempio, non si è proprio capito il senso delle parole pronunciate da Elly Schlein quando l’amministratore delegato Carlos Tavares ha avvertito che senza sussidi alcuni stabilimenti rischiano di chiudere. «Tavares ha lanciato una sfida, il governo la raccolga», ha dichiarato la segretaria del Pd. Ma quella del manager era chiaramente una minaccia, mica una sfida.
La leader dem ha quindi esortato l’esecutivo a far entrare lo Stato nella compagine sociale di Stellantis, come supposto dal ministro delle Imprese Adolfo Urso (il quale peraltro aveva già fatto questa proposta nel 2022, da presidente del Copasir). Peccato che quella di Urso sia stata solo una boutade. E non è nemmeno difficile intuirlo.
Certo, l’Italia avrebbe di che guadagnarci se un suo rappresentasse sedesse nel consiglio d’amministrazione della multinazionale – sia in termini di dividendi da incassare sia in termini di peso nelle scelte industriali dell’azienda – ma servirebbero almeno 4 miliardi di euro per pareggiare la quota in mano allo Stato francese (che comunque ha più diritti di voto) e il nostro governo non ha alcuna intenzione di tirarli fuori. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è tutto proiettato sul dossier privatizzazioni: il suo primo pensiero oggi è fare cassa, altro che finanziare l’acquisto di una quota dell’ex Fiat.
Anche Giuseppe Conte oggi vorrebbe lo Stato italiano socio di Stellantis. Il leader del M5S dimentica però che era lui il presidente del Consiglio quando si consumò la fusione tra Fiat Chrysler e Peugeot. E non risulta un suo impegno all’epoca per piazzare un emissario di Roma nel Cda. Anzi, il Governo giallorosso concesse a Fca un prestito da 5,6 miliardi di euro (poi restituito) che fu utilizzato dagli Elkann per autoassegnarsi lauti dividendi nei mesi seguenti. All’epoca solo Carlo Calenda e il dem Andrea Orlando sollevarono la questione, ricevendo fra l’altro in cambio un coro di critiche dal centrosinistra. Poi è calato di nuovo il silenzio.
Negli ultimi due anni nessuno o quasi ha detto o fatto nulla, ad esempio, sulla “fuga da Stellantis” di migliaia di lavoratori che, non vedendo più un futuro nell’azienda, hanno accettato la buonuscita offerta dai francesi e si sono licenziati.
Per troppo tempo la politica è rimasta a guardare da lontano. Intanto Fiat tradiva ripetutamente gli impegni presi sugli investimenti da fare in Italia e accumulava un ritardo spaventoso sull’auto elettrica.
Dov’erano i partiti che oggi strepitano, quando venivamo superati da Repubblica Ceca e Slovacchia per numero di auto prodotte? Non è un caso se lo scorso dicembre, per la prima volta dopo 96 anni, Fiat ha perso il primato di marca più venduta nel nostro Paese, superata dalla tedesca Volkswagen.
Oggi che il tema Stellantis è finalmente tornato sulle prime pagine dei giornali si discetta prevalentemente di misure marginali, come gli incentivi all’acquisto, o irrealistiche, come la possibilità che lo Stato diventi azionista.
Sarebbe invece il caso di discutere, più concretamente, di come affrontare dal lato dell’offerta la svolta epocale dell’elettrificazione. E quindi ragionare di come incentivare la costruzione in Italia di nuove fabbriche per la produzione e il riciclo delle batterie, di come riqualificare decine di migliaia di operai specializzati, di stimolare le attività di ricerca e sviluppo,e così via. Si chiama politica industriale. Ma richiede studio, idee, programmazione. La nostra politica preferisce azzuffarsi sul nulla. E allora, adieu.