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Il sogno inconfessabile delle élites: un elettorato che non vota (di L. Telese)

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

C'è una parte di classe dirigente che tifa per un elettorato che non vota. O uno stallo alla messicana che produca l’ennesimo governo tecnico. Per liberarsi dal fastidio del consenso. È il populismo dei draghiani

Pensate al paradosso di questa campagna elettorale, a quali effetti sta producendo sulle elezioni politiche il più raffinato e pericoloso dei populismi, il “populismo neo-aristocratico delle elités”.

C’è infatti un pezzo delle classi dirigenti italiane, che in questi anni – per rabbia o disperazione – ha iniziato a tifare per il non-voto, o per la non-vittoria, o per un risultato comunque incerto che non produca alcuna maggioranza parlamentare omogenea.

Si tratta di tre scenari che, dopotutto, rappresentano – sia pure in modi diversi – l’unico modo possibile per assicurare il ritorno di una formula ormai a-democratica ma quasi sacralizzata: il cosiddetto “governo tecnico”. Un governo, cioè, che riesca a liberarsi del problema del consenso. Che non debba confrontarsi con l’idea di essere legittimato da un voto popolare.

Sembra folle, ma questa nuova corrente di pensiero poggia su una spiegazione più o meno logica. Si tratta di una speranza, quasi sempre inconfessata, ma sostenuta in ogni modo, anche sui media. A esempio quella che offrono alcuni candidati del cosiddetto “terzo polo” (che in realtà, stando ai sondaggi, a oggi è il quarto polo e mezzo).

Maria Stella Gelmini, ex ministro di Forza Italia, per esempio, teorizza apertamente il teorema del non consenso, con queste parole: «Io mi auguro che non vinca nessuna della principali coalizioni che sono in campo oggi: da un lato, cioè, quella formata da una sinistra massimalista, appesa ai capricci di Fratoianni e di Bonelli. E dall’altro una destra schiava del populismo della Lega. Se questo accade – osserva la ministra degli Affari regionali uscente – ci saranno le condizioni perché Draghi possa finalmente tornare a Palazzo Chigi! Votare per noi – conclude la Gelmini – significa votare per questo esito!». Il ritorno del tecnico vagheggiato, dunque, come un ritorno all’Eden, come lo stato di natura primigenio in cui i voti non contano più, e le maggioranze e i nomi sono intercambiabili, sotto il potere dell’unico vero “eletto”. Il leader tecnocratico.

La politica? Un errore

Ora, a ben vedere, questo ragionamento (espresso con parole quasi identiche anche da Matteo Renzi e da Carlo Calenda, ma anche da commentatori autorevoli come Massimo Franco), ha degli elementi di follia, che però sono tutti spiegabili: secondo questa visione la destra e la sinistra sono solo un errore, il prodotto di un sentimento di malmostosa sovranità popolare, mentre “il governo dei migliori” sarebbe l’unica salvezza per il Paese, il disinnesco necessario del conflitto politico e sociale. Ma siccome i “migliori” non si vogliono sporcare le mani con le campagne elettorali e con il compito gravoso della raccolta dei voti, allora la politica deve diventare ancella della tecnocrazia, puro teatro elettorale a sovranità limitata. Così la politica si riduce a tifare la crisi della politica (cioè di se stessa!) pur di poter poi invocare un salvatore della patria che rimetta le cose a posto.

Il ragionamento è così contorto che ha dato vita a un siparietto surreale tra l’ex ministra azzurra e il direttore de IlFatto.it, Peter Gomez su La7: «Mi scusi – ha obiettato infatti Gomez – ma se voi arrivate a tifare per una mancanza di maggioranza, purché Draghi governi, mi può almeno dire se Draghi l’ha incoraggiata? Se lui favorisce o meno questo vostro progetto? Lei – aveva concluso Gomez – lo vede spesso, e anche stamattina lo ha fatto, in consiglio dei ministri. Possibile che non le abbia mai detto nemmeno una parola?».

A questa domanda l’espressione della Gelmini si era virata improvvisamente di tonalità marmoree e pietrificate. La candidata calendiana, infatti, avvertiva di non poter dire di essere stata “incoraggiata” (sarebbe diventato subito un fatto politico, e dunque un titolo). Ma non poteva nemmeno negare a cuor leggero di non aver ricevuto nessun sostegno (perché sarebbe stato un modo per descrivere la propria irrilevanza). E così la Gelmini, per alcuni minuti, non ha detto più nulla. Sorrisi, mezze frasi, elusioni.

Il governo Draghi, nella testa di questi supporter, dovrebbe tornare come i sovrani delle dinastie italiane tornarono ai loro regni regionali dopo il congresso di Vienna nel 1815: con le parrucche e le gorgiere, chiusi nelle loro carrozze di stucco dorato, e acclamati nelle vie dai cafoni festanti. Ma – per carità di Dio – nessun voto e nessun test. Perché non esiste più nessuna speranza di superare indenni la prova.

Contro il suffragio universale

Ho trovato dunque molto istruttivo – a questo proposito – un dialogo in cui un leader insospettabile di qualsiasi passione giacobina o radicale, Mario Monti, ha stigmatizzato questo atteggiamento, regalandomi alcune salaci e caustiche battute che bene descrivevano la situazione: «Qualcuno – dice Monti – mi ha raccontato come un presunto “perdente”, per il risultato, che io ho raccolto con Scelta Civica, alle politiche del 2013. Ma voglio sommessamente ricordare – sorride il senatore a vita – che io mi sono candidato con una lista costruita in soli tre mesi, dopo due anni di governo lacrime e sangue, che veniva dalla riforma delle pensioni, che non ha fatto promesse, e che semmai ha tolto, più che dare, agli italiani. Bene – osserva Monti – io in queste condizioni ho preso il 10 per cento dei voti. Sono proprio curioso di vedere se chi si candida a raccogliere quei consensi riuscirà ad avvicinarsi a questo risultato».

Forse, proprio in virtù di questo risultato, Draghi ha scelto di non candidarsi. Mentre, com’è noto il suo governo ha avuto tutt’altro portamento: ha aperto il suo mandato con una riforma del catasto che scattava solo nel 2024 per non dare fastidio al centrodestra, e l’ha chiusa con un bonus benzina universale da duecento euro, perfetto per fare “immagine”. Questo mentre, dopo aver modificato per sette volte il bonus edilizio, rimproverava al governo giallo- rosso (nel famoso discorso della fiducia) di averlo “scritto male”.

Se c’è una cosa che il populismo delle elités non disdegna, dunque, è la ricerca ammiccante degli elettori. Ma una cosa è compiacere, altro è dover stabilire un patto, presentarsi con delle proposte, contrarre degli impegni nel rito elettorale. Il renzismo ha costruito tutta la sua strategia sulle promesse e sulle prebende (memorabile il “bonus violino”). Mentre “l’età draghiana” si è chiusa con il primo voto anticipato estivo (strategico per evi- tare le reazioni furibonde dei cittadini alle bollette bimestrali di ottobre).

Il “populismo” è sempre quello degli altri. In diversi Paesi del mondo si dibatte (purtroppo seriamente) sulle forme con cui superare la democrazia rappresentativa, sulle “democrature” carismatiche, su provocazioni come il ritorno a forme non plebiscitarie, oligarchiche, nuove teorizzazioni del suffragio ristretto, o addirittura di democrazie “epistocratiche” (di nuovo, il governo dei “migliori”) come quelle descritte da un costituzionalista del calibro di Sabino Cassese.

Il saggio di Cassese è stato pubblicato come prefazione al libro di uno studioso americano Jason Brennan, che si intitola, non a caso, “Contro la democrazia”, per riassumere il disagio dei neoliberali rispetto al suffragio universale. Persino a sinistra, però, qualcuno considera il voto universale uno strumento superato: un’idea che serpeggia nella sinistra francese, e ha trovato una forma in un saggio intitolato “Contro le elezioni”, pubblicato da uno studioso belga, David van Reybrouck.

Votare – questa è la tesi – «non conviene più», tanto è tutto già deciso. Sono idee che circolano a una tale velocità, che persino il vecchio Silvio Berlusconi, pochi giorni fa, ha detto in uno dei suoi messaggi: «Ricordatevi che il mio è stato l’ultimo governo che era espressione di una maggioranza eletta con il voto».

Ecco, perché anche le elités italiane stavolta tifano per la non-vittoria: cambiare tutto, con il teatro di una campagna elettorale teatrale, perché alla fine non cambi nulla. Ma alla fine anche i tifosi del nuovo gattopardo fanno male i conti: il combinato-disposto del taglio dei parlamentari e del Rosatellum un effetto lo produrrà. Sarà brutta, sporca o cattiva, ma una maggioranza, da queste urne salterà fuori. Con buona pace dei tifosi della “Restaurazione draghiana”.

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