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Silvia Romano era la nostra prima occasione per mostrarci migliori dopo la pandemia e l’abbiamo sprecata

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E il bello è che ce l’avevamo proprio lì, servita su un piatto d’argento. Un assist al bacio, un rigore al novantesimo, con il portiere improvvisamente stroncato al suolo da un fulmine, inerte. Pensavamo di dover aspettare ancora chissà quanto, mesi i più ottimisti, anni i pessimisti, e forse è proprio questo navigare a vista che ci ha fatto scambiare, in uno sbaglio avvolto dalla foschia del mattino, questa ragazza vestita d’azzurro per una sirena di fumo, un abbaglio da marinai stanchi e allucinati. E invece era proprio così. La ragazza era davvero Silvia Romano. E il suo ritorno, e anche il soggetto dell’introduzione, era proprio l’occasione per dimostrare di essere migliori. D’altra parte è proprio su questo concetto un po’ calvinista, sull’utilità morale di tutta questa sofferenza, che abbiamo fondato la nostra retorica da quarantena. Il virus ci renderà migliori. I nostri sacrifici ci renderanno migliori. L’aver assistito a tutto questo dolore ci renderà migliori.

E non era solo un florilegio di editoriali roboanti e mistici, di quelli che devi scrivere perché il giornale senza quelle due o tremila battute sulla celebrazione di un “noi” come popolo resiliente e buono resta con uno spazio bianco in prima pagina. Non erano solo balconi cantanti, mani plaudenti, gesti di cristallino altruismo (che pure ci sono stati) che si inseguivano l’un l’altro sulla cronaca locale e nazionale, sulle bacheche di Facebook e nelle storie di Instagram. Era proprio un credo diffuso, assodato, che nemmeno qualche sparuta cornacchia del malaugurio (non saremo migliori proprio per un tubo) è riuscita a soffocare. Saremo migliori, anzi, lo siamo già. Manca solo l’occasione per dimostrarlo.

Ed eccola qui, la nostra prima occasione. È scesa da un aereo poco più di ventiquattr’ore fa, come nei testi sacri i presagi scendono dal cielo. Perché no, essere migliori con il virus non conta. Non è che siamo migliori perché ci mettiamo la mascherina o facciamo la spesa al vicino anziano. Questa è virtù d’emergenza, da pandemia, ma si è migliori in tempo di pace, di salute. Si è migliori sempre a prescindere dalle contingenze, ed eccola qui, la nostra contingenza imprescindibile. Silvia Romano non c’entra con il virus. Appartiene al passato ed è rimasta sospesa nel tempo, in un tempo in cui il virus non esiste. Ci preoccupiamo per la sua salute in quanto ostaggio, non in quanto potenziale infetta Covid. Nessun campo semantico o parola chiave collega Silvia Romano al Coronavirus, a parte il 2020. Un po’ fiacchino come filo rosso, e quindi perfetto.

È davvero la prima vera occasione per dimostrare che, in un mondo finalmente libero dal contagio, saremo migliori. Non con un infermiere, non con un malato, né con un imprenditore in difficoltà. Genericamente migliori. Festeggiare con gioia, gratitudine spontanea, come un giorno lieto la liberazione di una ragazza dopo 18 mesi di sequestro, felicitarci con lei e con la famiglia. Ringraziare chi l’ha reso possibile, anche Dio per chi ci crede, e basta. Bastava esser felici per essere migliori, pensa che fatica. Bastava perfino non dir nulla. C’è qualcosa di più facile del silenzio? No, pure un morto è capace di star zitto.

E invece no, con la prima occasione buona per essere migliori abbiamo fatto cagare come al solito. È necessario usare la prima persona plurale in questo caso perché se questa cosa di esser migliori viene genericamente attribuita a “tutti”, allora dev’esser sempre “tutti” a fare schifo. Non vale specificare ora dopo che si è generalizzato prima. Perciò è inutile puntare il dito verso Feltri, Sgarbi, il consigliere leghista (qualsiasi sia, ce n’è sempre uno in questi casi, come nelle barzellette). Inutile stigmatizzare le esternazioni di questo o di quello, o anche questa e quell’insinuazione sulla conversione, sulla gravidanza, sul matrimonio, persino sul Rolex santa pazienza. Inutile dividere i commentatori sui social, come al solito la grande cloaca, come prima del virus. Sarà ingiusto nei confronti di qualcuno, come di Pippo Civati che per 18 mesi ha predicato nel deserto, ma è il prezzo da pagare per essere popolo nel bene. Si è popolo anche nel male. E quindi no, il virus non ci renderà migliori. Faremo schifo proprio come prima. Né più, né meno.

Leggi anche:

1. Cara Silvia, perbenisti e bigotti non ti perdonano perché sei donna, libera e felice (di L. Tosa) / 2. Volevate l’italianissima Silvia Romano che raccontasse quanto è brutta e sporca l’Africa ma siete rimasti delusi (di L. Tomasetta) / 3. Se una conversione all’Islam destabilizza i vostri pregiudizi borghesi, il problema siete voi (di G. Cavalli)

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