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Home » Opinioni

Si scrive premierato, si legge presidenzialismo di fatto

Immagine di copertina
Credit: AGF

La riforma Meloni attua un disegno che viene da lontano. Lo schema è sempre lo stesso: una piramide con un vertice ristrettissimo. L’obiettivo è smantellare la Costituzione nata dalla Resistenza

Attenzione, perché mai come in questo momento le parole contano. A proposito della riforma meloniana, si parla impropriamente di premierato, senza tenere conto del fatto che il premierato in Italia, sostanzialmente, esiste già. Basti pensare al nome del candidato premier che, dai tempi di Berlusconi, campeggia sul simbolo dei vari partiti, finendo col contagiare anche la sinistra, al punto che nel 2008 lo stesso Veltroni non resistette alla tentazione di mettere il proprio cognome sul simbolo del Pd.

E basti pensare alle ironie cui fu sottoposto Bersani quando, nel 2013, disse espressamente: «Dopo di me ci sarà un altro», rifiutandosi di cedere alla logica plebiscitaria che, purtroppo, si è impadronita della politica italiana, in un’orgia di cesarismo, autorferenzialità e ambizioni smodate che ha contribuito non poco ad allontanare la cittadinanza dalle urne. 

Ciò che si vuole imporre, pertanto, è un presidenzialismo mascherato a reti unificate, con il servizio pubblico ridotto a megafono del Governo e il pensiero critico relegato ai margini, quando non addirittura vilipeso. 

Nel merito
Venendo alla riforma meloniana, nel merito, altro non è che un pasticcio, il quale prevede la modifica sostanziale di quattro articoli della Costituzione: il 59, l’88, il 92 e il 94, prevedendo, fra le altre cose, l’elezione diretta del presidente del Consiglio, la cosiddetta norma anti-ribaltoni, ossia la possibilità di sostituire il dominus votato dalla cittadinanza una volta sola e unicamente con un esponente della maggioranza, per giunta scelto fra i parlamentari, l’eliminazione della possibilità, per il Capo dello Stato, di nominare i senatori a vita e un premio di maggioranza che «garantisca il 55% dei seggi» alla coalizione vincente, senza tener conto dell’effettiva percentuale raccolta alle elezioni. 

Partiamo da quest’ultimo aspetto, palesemente incostituzionale, in quanto già bocciato dalla Consulta a proposito dell’Italicum, la riforma che il mondo intero ci avrebbe dovuto copiare e che invece, per fortuna, non vide mai la luce, sostituita pochi mesi dopo dal non meno inquietante Rosatellum, con cui abbiamo votato nel 2018 e nel 2022. 

Per il resto, l’unico aspetto epocale contenuto in questa proposta è la sostanziale riduzione del Capo dello Stato a un passacarte, un notaio costretto a conferire l’incarico di governo a un soggetto scelto dagli italiani, dunque pesantemente indebolito dal fatto di essere, a differenza del signorotto che verrebbe a crearsi, una carica priva di investitura popolare. 

La realtà
La verità, tuttavia, è un’altra. Da quarant’anni a questa parte, sia pur con differente intensità, una politica ridotta all’anno zero dopo la tragedia di Moro e ormai priva di credibilità e autorevolezza, anche per via della sua mancanza di autonomia in ambito internazionale, ha pensato di scaricare sulla Costituzione le proprie magagne, vagheggiando di mirabolanti riforme che finora, anche se non sempre, siamo riusciti in qualche modo a sventare. 

Qualche disastro, ahinoi, ha visto comunque la luce: ad esempio la riforma del Titolo V, alla base degli infiniti contenziosi fra Governo centrale e Regioni, che fu il cavallo di battaglia della sinistra in salsa federalista di fine anni Novanta; senza dimenticare il taglio dei parlamentari di matrice grillina, responsabile dell’ulteriore picconata che è stata inferta ad assemblee legislative drammaticamente trasformate in votifici, nelle quali non si fa altro che ratificare le decisioni assunte in sede Nato, a Bruxelles o a Palazzo Chigi, riducendo deputati e senatori a soprammobili e i partiti a orpelli, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di chiunque. 

Guai a pensare che si tratti di un caso: è una precisa scelta, compiuta non da un singolo “conducator” ma in esecuzione di un disegno che viene da lontano e che mira espressamente allo smantellamento della Carta nata dalla Resistenza, di cui costituì il programma politico e la piena attuazione quando fu ristabilita la democrazia. 

Organi di garanzia
In gioco, pertanto, ci sono innanzitutto gli organi di garanzia, quei presidi indispensabili per il corretto svolgimento della vita democratica, un tempo accettati anche dalle frange più conservatrici della Democrazia Cristiana e oggi, al contrario, invisi persino a una parte dei sedicenti progressisti.

La Corte costituzionale, il Csm, gli amministratori delegati delle grandi aziende di Stato, il governatore della Banca d’Italia: il potere effettivo, controllato e bilanciato, scelto dal Governo ma bisognoso della massima autonomia e indipendenza, pena lo smarrimento del proprio ruolo e della propria funzione storica. È qui che si vuole incidere, non da oggi. 

Lo schema è sempre lo stesso: un capo e dei sottoposti, una piramide con un vertice ristrettissimo e le elezioni considerate un male necessario, un fastidio da sopportare a patto che la contesa sia, in pratica, tra due schieramenti che non mettano in discussione i pilastri su cui si fonda un ordine globale ormai al tramonto. 

Le due destre
Non a caso, su alcuni giornali, da parte di determinati editorialisti e nei soliti salotti televisivi, è già partito l’attacco ai cosiddetti “massimalisti”, cioè coloro che vogliono difendere la Costituzione più bella del mondo dall’ennesimo assalto. Non solo: è tutto un fiorire di consigli interessati su come evitare che, ancora una volta, la cittadinanza bocci senza appello l’ennesimo tentativo di stravolgere i principi cardine del nostro stare insieme.

E allora ecco il solito trust di cervelli prodigarsi per suggerire soluzioni: il cancellierato, il doppio turno alla francese, il semi-presidenzialismo e altre formule talvolta vuote, talvolta fallite nei Paesi che le hanno adottate per decenni e talvolta semplicemente inapplicabili nel contesto italiano. 

Noi, per dirla con Moro, siamo infatti «un Paese dalle strutture fragili e dalle passionalità intense». Non a caso, abbiamo avuto il fascismo, lo stragismo, i servizi segreti collusi, la P2, i cui strascichi si fanno sentire tuttora, il collasso dell’intero sistema politico dopo Tangentopoli, l’abisso di Genova e tutta una serie di vicende che suggeriscono la massima cautela decisionale e la minor concentrazione possibile del potere. 

Instabilità
Quanto al mantra della stabilità dei governi, a parte che non ha mai costituito un valore in sé, è bene ricordare che nella Prima Repubblica i cambi di governo erano dovuti, per lo più, a dei rimpasti, legati alle storture della democrazia bloccata e alle convulsioni del partito egemone, cui sempre Moro, in un’intervista rilasciata a Scalfari un mese prima di essere rapito, inviò il seguente monito: se non accetteremo la sfida del cambiamento e dell’alternanza, «governeremo lo sfascio del Paese e affonderemo con esso». 

Dal 1994 in poi, Berlusconi è stato il padrone assoluto del centrodestra mentre la sinistra si è spesso fatta del male da sola, senza che la Costituzione ne avesse alcuna colpa.

Da una decina d’anni a questa parte, infine, siamo ridotti così perché non può esistere alcuna stabilità in assenza di partiti veri, con una vita interna regolata da un dibattito effettivo e congressi degni di questo nome. Il nostro sospetto, insomma, è che non solo dalle parti di Palazzo Chigi, mutuando l’“Agricola” di Tacito, vogliano dar vita un sultanato e chiamarla democrazia.

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