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La settimana corta è un successo ovunque. In Italia invece continuiamo a lavorare di più e (quindi) peggio

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

Lavorare un’ora al giorno in meno guadagnando lo stesso e producendo di più. Sembra un sogno e invece in Islanda è già realtà. Dal 2015 al 2018 circa 2.500 impiegati del Comune di Reykjavik (l’1% circa della popolazione lavorativa islandese) sono stati al centro di un esperimento di implementazione della settimana lavorativa corta, passando da 40 a 35 ore di impiego totali.

La rivoluzione ha preso avvio nel 2015, quando sindacati, imprenditori e i vertici del Comune della capitale islandese si sono seduti al tavolo per trovare un accordo su una riduzione delle ore di lavoro, al fine di concedere un’ora di tempo libero in più al giorno agli impiegati, lasciando però invariati gli stipendi.

Quattro anni dopo, i risultati dello studio certificano il successo dell’esperimento: costi aziendali ridotti, produttività aumentata considerevolmente, maggiore soddisfazione dei soggetti coinvolti, più tempo per la famiglia e per l’esercizio fisico, con importanti benefici dal punto di vista della salute e una netta riduzione dello stress, nonché maggiore equità di genere nei lavori domestici.

I dati sono stati così sorprendenti da convincere il Comune di Reykjavik, a metà 2020, a estendere la riduzione dell’orario a tutti i dipendenti pubblici, e da pochi mesi anche ai privati che ne faranno richiesta. Il prossimo obiettivo potrebbe essere la settimana lavorativa di quattro giorni. Una possibilità che è già attiva in alcuni paesi e grandi aziende nel mondo.

“Il vero problema è stato spezzare la routine e reinventare ritmi e riti cui eravamo abituati da anni”, ha spiegato nella relazione all’esperimento uno dei partecipanti. I tempi delle riunioni sono stati accorciati grazie all’utilizzo delle email, le sovrapposizioni cancellate, le mansioni inutili e le operazioni ridondanti sfoltite. Meno tempo, più concentrazione: questa la ricetta del successo islandese, che adesso è visto con grande interesse da molti altri paesi.

“Questo studio mostra che la più grande prova al mondo di una settimana lavorativa più corta nel settore pubblico è stata sotto tutti i punti di vista un successo travolgente”, ha dichiarato Will Stronge, direttore della ricerca presso Autonomy. “Dimostra che il settore pubblico è maturo per essere un pioniere delle settimane lavorative più brevi. E altri governi possono trarne lezioni”.

In realtà, l’esperimento islandese è solo l’ultimo in ordine cronologico. Prima di questo, c’era stato il caso, nel 2019, della sede giapponese di Microsoft, che aveva testato la settimana lavorativa di quattro giorni per 2.300 dipendenti, e la cui produttività era aumentata quasi del 40% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (agosto 2018), mentre i costi aziendali erano stati ridotti.

A questi sorprendenti risultati, si erano aggiunti i feedback positivi ricevuti dai dipendenti: il 92,1% di loro aveva dichiarato di preferire la settimana lavorativa corta a quella tradizionale. Lo studio è andato così bene che adesso il Giappone ha chiesto alle imprese di implementare soluzioni di questo tipo per contrastare il drammatico fenomeno del “karoshi”, ovvero le morti causate dal troppo lavoro.

Diversi report pubblicati dal governo nipponico hanno evidenziato infatti come il problema del “superlavoro” sia profondamente radicato e diffuso nella mentalità dei giapponesi. In molte aziende le ore di straordinario lievitano vertiginosamente, mentre i dipendenti tendono a ritagliarsi sempre meno giorni di ferie, per essere il più possibile presenti sul luogo di lavoro.

Se però la riduzione delle ore di lavoro coincide – come ha dimostrato l’esempio di Microsoft – con un significativo aumento della produttività, le scelte delle aziende giapponesi potrebbero virare verso soluzioni più sostenibili, con un effetto positivo sull’equilibrio lavoro-vita privata e quindi sul benessere psicofisico dei lavoratori.

Sull’onda del successo del modello giapponese, nel 2020 anche 81 dipendenti di Unilever in Nuova Zelanda sono passati allo schema dei 4 giorni lavorativi a paga invariata. È stato poi il turno della Finlandia, dove Sanna Marin, la più giovane leader di un governo al mondo, ha proposto di ridurre la settimana lavorativa a 4 giorni, ciascuno di 6 ore.

Ha seguito infine la Spagna che, grazie a uno stanziamento pubblico da 50 milioni di euro, ha attivato, a partire da febbraio scorso, la sperimentazione della settimana lavorativa di 32 ore distribuite nell’arco di 4 giorni, su iniziativa del partito di sinistra Más País.

Cosa accade invece in Italia? La settimana lavorativa corta in realtà esiste anche nel nostro paese. Alcune aziende infatti hanno introdotto la settimana di lavoro da 36 o 32 ore a fronte dello stesso stipendio per i propri dipendenti.

È il caso di due grandi aziende internazionali con sede anche a Milano: la Carter&Benson, che si occupa di consulenza strategica e head hunting, e Awin Italia, attiva nel campo del marketing. Entrambe hanno deciso di diminuire le ore di lavoro durante i mesi del lockdown, un periodo in cui molte aziende si sono trovate costrette ad utilizzare la modalità dello smart working. Un esperimento che ha riscosso grande successo e che è stato riconfermato anche per quest’anno.

Si sta parlando, però, di casi rari e isolati: l’andamento generale nel nostro Paese va, in realtà, verso un continuo aumento delle ore lavorative, agevolato dallo sviluppo delle nuove tecnologie, che permettono ai datori di lavoro di raggiungere i propri dipendenti ovunque e a qualsiasi ora, con cali di assunzioni e di performance dei dipendenti, e con la progressiva erosione dei diritti dei lavoratori.

“Sono del parere che, in primis, il governo debba agevolare le imprese che promuovono progetti di welfare”, ha spiegato Wiliam Griffini, Ceo di Carter&Benson, a Money.it. “Invece ci scontriamo con un’alta pressione fiscale e un elevato costo del lavoro che spesso paralizzano le aziende, non permettendo loro di investire e quindi di crescere. L’Italia deve mettersi accanto alle imprese, incentivando queste scelte qualitative con azioni concrete”.

In Francia dal 1998 la legislazione stabilisce 35 ore di lavoro settimanali. Sull’esperienza francese, che ha portato ad un aumento compreso tra i 350mila e i 500mila dei posti di lavoro, sono stati espressi giudizi favorevoli e contrari: alcuni sostengono che l’effetto positivo sull’occupazione sia dovuto alla riduzione delle ore di lavoro o alla maggiore flessibilità e alla riduzione delle tasse; altri hanno criticato l’intensificazione del carico di lavoro e il fatto che, a qualche anno dall’attuazione della riforma, l’orario medio sia tornato a crescere con il ricorso agli straordinari. Oltre al problema che le 35 ore sono costate e continuano a costare moltissimo allo Stato francese.

La riduzione delle ore sono infatti state finanziate attraverso una combinazione di blocco dei salari, agevolazioni fiscali e aumento dell’efficienza organizzativa, ma il grosso della spesa è stato sostenuto dal governo, pesando sulle casse dello Stato.

In Italia, ad oggi, il confronto politico e sindacale non ha portato a risultati o cambiamenti degni di nota in merito a questo tema. Anzi, i dati più recenti mostrano un peggioramento delle condizioni dei lavoratori nel mondo, in generale, e nel nostro paese, in particolare.

Nel 2018 l’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite) ha calcolato che il 31,6% delle persone nel mondo lavora più di 48 ore a settimana, mentre gli stipendi continuano a diminuire.

Nel 2019 l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha pubblicato uno studio sulle ore di impiego dei lavoratori dei suoi paesi membri. Nella zona euro l’Italia risulta essere il paese dove si lavorano in media più ore alla settimana, dietro solo alla Grecia e all’Estonia: 33 ore, vale a dire 3 in più rispetto alla media Ue di 30 ore. In Lussemburgo, Austria e Francia le ore settimanali sono 29, nei Paesi Bassi 28, in Germania 26.

È interessante constatare che a maggior quantità di ore di lavoro non corrisponde affatto una crescita dei livelli di produttività: l’Italia, infatti, si posiziona in fondo alla classifica che misura la crescita dei livelli di produttività, calcolata tra il 2010 e il 2016.

Secondo Eurostat, la produttività del lavoro, in realtà, è diminuita dello 0,3% nel 2018 e gli stipendi sono al di sotto della media OCSE, con il livello più basso tra i paesi più avanzati. La Germania, uno dei paesi Ue in cui si lavora meno, si posiziona, al contrario, al vertice della classifica della produttività.

In Italia, le 8 ore di lavoro giornaliere (48 a settimana) sono state introdotte nel lontano 1922 dal Governo Mussolini, sulla base della proposta precedente del Partito Socialista, anche se la lotta per un orario di lavoro dignitoso era già stata portata avanti anni prima dalle mondine.

L’ultima proposta concreta di riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore nel nostro paese fu avanzata da Rifondazione Comunista negli anni Novanta, senza trovare mai applicazione.

Come ha spiegato Simone Fana nel suo saggio Tempo Rubato, “per trent’anni l’idea dominante è stata quella della produttività a tutti i costi. Bisognava lavorare di più per produrre di più, e questo ha ispirato tutte le politiche economiche del lavoro degli ultimi anni. La riduzione degli orari veniva vista come qualcosa che avrebbe ridotto la produttività e che avrebbe compromesso sostanzialmente la crescita”.

La tendenza globale attuale in materia di orario di lavoro, invece, sta mostrando una sensibile riduzione graduale della settimana lavorativa, anche se spesso non motivata dalla necessità di ottenere un migliore equilibrio tra vita privata, salute e lavoro, ma incentivata piuttosto dai privati o dalla capacità contrattuale dei sindacati (molto forti in Islanda, ad esempio, dove rappresentano oltre il 90% dei lavoratori) o ancora dall’aumento complessivo delle persone che lavorano part-time (per lo più donne).

In questi ultimi mesi qualcosa sembra stia cambiando. L’effetto che la pandemia ha avuto sulla vita e sulla salute delle persone sta portando i lavoratori a rivalutare le proprie condizioni di lavoro, soprattutto quando precarie o legate a dinamiche di sfruttamento, come nel caso dei lavori stagionali. Un dibattito che, non solo in Italia, ma anche negli Stati Uniti, si è fatto più acceso che mai, e che inizia a riguardare anche il totale delle ore di lavoro.

Inoltre è ormai accertato che lavorare tanto risulta controproducente. Non solo dal punto di vista produttivo, ma anche per la salute. Secondo l’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) e l’Ilo, infatti, lavorare più di 55 ore a settimana aumenta il rischio di malattie cardiache ischemiche e ictus. E la pandemia non ha fatto altro che aggravare la situazione.

In Italia, in particolare, non solo sono sempre meno le persone che lavorano (-0,3% fra il 2007 e il 2017, a fronte di una media del +2,5% nell’Ue), ma si lavora anche troppo. Il 50,6% dei lavoratori italiani afferma che negli ultimi anni si lavora di più, con orari più lunghi e con maggiore intensità. Forse è arrivato il momento giusto per invertire la tendenza, mettendo al primo posto la salute e la dignità dei lavoratori e superando la logica del profitto.

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