Dubbi a sinistra: se il candidato al Colle detta le condizioni al Parlamento (di Chiara Geloni)
Le polemiche sul ritorno di D’Alema nel Pd offuscano il più grave rischio segnalato dal leader Maximo e cioè che con Mario Draghi al Quirinale la politica si auto commissari per sette anni
Facciamo un po’ di dietrologia. E se tra le ragioni del corto circuito mediatico di Capodanno su D’Alema e la “malattia” del Pd ci fossero le altre sue parole, assai più urticanti e meno rilanciate, sulla possibilità che Draghi diventi il prossimo presidente della Repubblica? Gli umori dei gruppi parlamentari alla vigilia delle votazioni sono per definizione insondabili, e questa volta di più. Ma è difficile non supporre che nonostante la crescente propensione di Enrico Letta a puntare sul presidente del Consiglio per il Colle, in fondo a sinistra, e non solo fuori dal Pd, stia crescendo il disagio per «la campagna culturale che accompagna l’operazione, sulla necessità di sospendere la democrazia e affidarsi a un potere, che altro non è se non quello della grande finanza internazionale». Chi lo ha detto? D’Alema su Zoom, naturalmente. Ma forse non solo.
Non è, per carità, che a sinistra non si capisca l’importanza di non dissipare il contributo alla vita pubblica dell’«italiano più autorevole». Come non è che non sia chiaro il rischio di perdere il filo della corsa al Colle precipitando le istituzioni nel caos in piena pandemia, o ritrovandosi un presidente eletto dalla destra grazie a una capriola di Matteo Renzi. E tuttavia chissà se queste preoccupazioni sono abbastanza forti da offuscare quella che la politica si auto commissari per sette anni. È vero che poi la politica i suoi spazi li riprende sempre: si tornerebbe al voto, qualcuno vincerebbe – più o meno nettamente – e si riaprirebbero i giochi. E però va detto che certi atteggiamenti del premier non sembrano aiutare una decisione serena. I suoi modi secchi, come si è visto nella conferenza stampa di fine anno e dopo, sconcertano, e non solo per una banalità come la paura del voto anticipato (di pochi mesi, figuriamoci): è la prima volta, con l’eccezione, motivata, del secondo Napolitano, che un aspirante al Colle detta le condizioni al Parlamento: quale maggioranza, quale durata della legislatura, quale programma del prossimo governo. Basterebbe questo, senza dover immaginare lo scenario questo sì davvero inedito di un presidente della Repubblica che appena eletto accoglie le proprie dimissioni da premier e designa il suo successore, magari attingendo alla squadra di “tecnici” da lui stesso selezionata un anno fa.
C’è poi un punto, forse più di fondo. Come ha detto Mattarella (non sospettabile di anti draghismo) nel messaggio di fine anno, non è che un presidente della Repubblica debba essere privo di appartenenze per poter rappresentare tutti. La storia dei presidenti (e quella di Mattarella stesso, uomo di solida cultura istituzionale pari alla nettezza delle sue posizioni politiche, protagonista addirittura di una scissione, quella dei Popolari, che fu all’origine dell’Ulivo) è la storia di personalità politiche capaci di “spogliarsi” (cito) del proprio abito di parte per assumere in toto il ruolo di custode della Costituzione. E di farlo proprio a partire dalla loro biografia spesa in modo trasparente e “partigiano”, al servizio della Repubblica. Possibile che questi pensieri facciano breccia soltanto sui giornali impegnati nella campagna elettorale pro Berlusconi al Colle, e non anche nella mente di qualche grande elettore di sinistra?
E infine, obiezione che ho letto in un’intervista di un saggio e navigato novantenne come Rino Formica ma giuro di aver sentito anche dal parrucchiere (e volete che a sinistra nessun altro se lo chieda?): in tempi di anti politica che messaggio danno un Paese e un Parlamento che sembrano avere come soluzione di tutto solo un’unica persona?
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