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La scalata al Monte Bianco come segno di rinascita: “A due anni dalla chemioterapia, ho ripreso in mano la mia vita”

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Cristina Bettati

La storia di Cristina Bettati che, a circa due anni dalla diagnosi del linfoma di Hodgkin, ha scalato il Monte Bianco scrivendo per TPI una splendida storia di coraggio, resilienza e speranza per tutti coloro che lottano o hanno lottato contro un tumore

La piccozza si alza per sprofondare nella neve un’ultima volta. È fatta: ci troviamo a 4.810 metri di quota sulla vetta del Monte Bianco, il tetto d’Europa. Una cima che Max – ai tempi mio compagno e ora marito – sognava dal 2017. Allora per me si trattava di uno dei suoi tanti sogni a occhi aperti, un’avventura estrema che mai avrei pensato di intraprendere. Un’idea talmente stravagante da trasformare improvvisamente in allettante la proposta di percorrere il Cammino di Santiago.

È in preparazione del Cammino che ci avvicinammo alla montagna. Per me si trattava di un riavvicinamento dopo i tanti anni trascorsi dall’ultimo campeggio parrocchiale in Alto Adige. Iniziammo con lunghe passeggiate nelle umide campagne emiliane per poi intensificare lo sforzo sui nostri meravigliosi e imprevedibili Appennini. Ben presto trovammo grande soddisfazione nell’affrontare dislivelli sempre maggiori, spostandoci inevitabilmente sulle Alpi. Ho realizzato con il tempo che Max non perdeva occasione per dotarmi dell’attrezzatura necessaria per l’alta montagna. Mi vedo ancora scartare il mio regalo di Natale del 2018: una piccozza, un imbrago e una corda. Il mio sorriso forzato non riusciva a nascondere del tutto la mia delusione. Ricordo ancora le risate con le amiche quando mostrai loro la foto di me imbragata, con corda e piccozza alla mano nel salotto di casa.

Il 2020 – portatore di Covid, stress e paura – fu anche l’anno della svolta. La necessità di pianificare una vacanza senza l’utilizzo di aerei e strutture alberghiere a causa delle possibili chiusure concomitanti a inevitabili nuove ondate, ci portò a selezionare il tour du Mont Blanc, un trekking di 170 chilometri attorno al massiccio del Monte Bianco per un dislivello totale di circa 10.000 metri. Anche se il tour prevede una quota massima di 2.600 metri, Max mi convinse che era meglio testare la nostra capacità di camminare ad alta quota. Il primo assaggio di neve pestata dai ramponi fu per raggiungere Punta Penia sulla Marmolada in giugno 2020. L’esperienza fu così entusiasmante da voler alzare l’asticella, così il mese seguente raggiungemmo prima la cima del Gran Paradiso e poi la Capanna Margherita sul Monte Rosa.

Ciò che in assoluto preferisco di queste escursioni è la camminata sul ghiacciaio. Lì, su quel mare bianco, in mezzo alla cordata, la testa si svuota e si focalizza sul presente: non pestare la corda con i ramponi o dovrai offrire una birra alla guida, tieni la corda tesa e segui i solchi delle orme di chi ha tracciato la strada anche per te. Non importa quanto nota sia la cima o quante cordate stiano percorrendo la stessa traccia, quando il passo si fa lento e l’unico suono è il graffiare dei ramponi sul ghiaccio, quando la mia vita è nelle mani di altri due esseri umani, i quali reciprocamente affidano le loro esistenze nelle mie di mani, io mi sento sempre parte di qualcosa di grande, una piccola esploratrice di terre ai più sconosciute.

Cristina Bettati

La magnificenza di trovarsi al cospetto del Monte Bianco per tutti i dieci giorni del tour, ha impiantato in me un seme di curiosità misto a timore e rispetto per questa montagna. Forse ancora inebriata dalla proposta di matrimonio ricevuta in una delle tappe finali del tour, sconvolgo Max comunicandogli che ho studiato le offerte per il Monte Bianco e selezionato alcune agenzie di guide alpine che offrono dei pacchetti di stage che potrebbero fare al caso nostro. A inizio 2021 ho già prenotato per l’estate: il pacchetto prevede due giorni di salite di preparazione e acclimatamento e tre giorni per salire e scendere dalla cima.

Prendo questa decisione molto seriamente: incremento le sessioni di allenamento in piscina e, per la prima volta in vita mia, indosso scarpe da corsa e inizio a correre. Non mi sono mai sentita così in forma, così consapevole del mio fisico. Sì, forse spingo troppo, altrimenti non mi spiegherei la brutta sensazione di nausea che alle volte mi attanaglia mentre corro. Alla fine della primavera mi viene un forte raffreddore, tipico per i miei standard, se non fosse per un rigonfiamento grande come una nocciola alla base del collo che non vuole andarsene. Max è appena tornato da circa sei mesi di trasferta, dobbiamo decidere gli arredi per l’appartamento in costruzione, quella nocciola se ne andrà da sola prima o poi.

Eppure i giorni passano e la nocciola resta. Mia madre – che di rigonfiamenti ormai è esperta – mi spedisce dal dottore. Il dottore mi spedisce dall’ecografo. L’ecografo mi spedisce in oncoematologia. Lì incontro per la prima volta il Dottore che si è preso cura sia di mio fratello sia – a distanza di dieci anni – di mio padre, e che con un abbraccio fa dimenticare per alcuni secondi il macigno che i suoi pazienti portano sulle spalle. Ora – un’altra decina di anni dopo – è il mio turno: linfoma di Hodgkin, IV stadio. Ricordo ancora il sorriso abbozzato del Dottore mentre scuote la testa in risposta alla mia ingenua domanda se posso ancora intraprendere il Monte Bianco quell’estate.

La diagnosi mi scuote nel profondo: come può il mio fisico, all’apparenza così efficiente, aver covato un nemico così grande a mia totale insaputa? È come uno strappo violento che trancia il legame di fiducia che ho con il mio corpo. In rapidissima sequenza dopo la diagnosi, inizia il processo di criopreservazione degli ovociti – fallito, così come viene riportato su ogni fottutissima nuova stampa della mia cartella clinica -, l’installazione dell’odiatissimo, ma benedetto PICC e il primo ciclo di terapia, al quale ne seguono altri lunghissimi e faticosissimi cinque. Il 6 dicembre 2021 – sei mesi dopo la diagnosi – festeggio l’ultima terapia. La visita di controllo del 28 aprile 2022 sancisce la mia remissione completa.

Cristina Bettati
Cristina Bettati

Il 2022 promette di essere un anno impegnativo, ma all’insegna della positività: ci sarà il nostro matrimonio, il trasloco nel nuovo appartamento e terminerà con un desideratissimo viaggio di nozze. Sull’onda di questi pensieri favorevoli, Max mi sprona a tornare in montagna. Presentiamo la nostra domanda di partecipazione a un corso di alpinismo presso la nostra sezione del CAI e, miracolosamente, veniamo accettati. È un corso sofferto, segnato dalla morte di uno dei miei migliori amici – una botta fortissima, presa in pieno petto, con mancata apertura dell’airbag -, dall’inadeguatezza che sento nei confronti degli altri partecipanti – li vedo tutti più spensierati, più atletici, più sani di me – e dalla ormai immancabile sfiducia nelle mie capacità fisiche.

Urge un assetto fisico e mentale e in queste situazioni la mia miglior medicina è sempre quella di guadagnarsi un pezzetto del Cammino di Santiago, seguito per l’occasione da un corso di surf nella città cantabrica di Santander. Tornati a casa rigenerati, tentiamo un secondo corso CAI, questa volta di arrampicata. Grazie alle nuove energie accumulate durante il Cammino, riesco a vivere questo corso decisamente più in sintonia con me stessa e gli altri partecipanti. Questo annus in bonam partem horribilis si conclude idillicamente all’ombra del Mount Cook, un tempo meta di allenamento per nientemeno che Sir Edmund Hillary in vista delle sue spedizioni sull’Everest e in Antartide. Esiste forse un modo migliore per tirare fuori dal cassetto un sogno ormai impolverato?

A inizio 2023 ci risiamo: prenoto un pacchetto di stage per il Monte Bianco lasciando a Max tutto l’onere della nostra preparazione. È dal 2021 che non calzo più scarpe da corsa e non ho intenzione di rimetterle ai piedi. Sento come un freno, la paura di ricascare di nuovo in una falsa autoconsapevolezza che – prima o poi – potrebbe ferirmi con una nuova maligna sorpresa. Il calendario di escursioni in programma per i fine settimana sembra infinito e invece agosto arriva in un lampo ed è già tempo di preparare lo zaino per la nostra mini spedizione.

Vivo gli ultimi giorni nello sconforto a causa di un’ultima escursione andata male per colpa del limite per me più difficile da superare: quello imposto dalla mia stessa testa. Il mio fisico può ancora avere del carburante, ma se la mia testa inizia a dirmi che sono stanca e non posso farcela, la spia della riserva si accende e allora bisogna velocemente correre ai ripari perché l’autonomia è davvero minima.

La pericolosissima spia della riserva si accende anche al rifugio del Goûter, a circa 1.000 metri di dislivello positivo dalla vetta del Monte Bianco. Che fare? Dire addio al sogno ficcandolo sul fondo del cassetto delle calze spaiate? Buttare all’aria mesi di allenamento, anni di preparazione nonché un discreto ammontare di soldi per un capriccio della propria testa? No, non questa volta.

Grazie al passo esperto della nostra guida, lento e costante, ho deciso di focalizzarmi su un movimento per volta: inspira, un passo, un altro, piccozza, espira e avanti. Invece di guardare quanta strada abbiamo ancora davanti, guardo giù e tutte le volte mi meraviglio di quanto lontano siamo già arrivati grazie al fondamentale “passo della guida stanca”. Nonostante tutti gli sforzi di focalizzazione, i pensieri cupi rescono comunque a rompere le righe ed è in quei momenti che mi sforzo di visualizzarmi sulla poltrona giallognola dell’ospedale, attaccata alla sacca della chemio, terrorizzata, ma pronta all’inevitabile inferno che ne conseguirà di lì a poche ore.

Se sono riuscita a uscirne psicologicamente ammaccata, ma viva, se il mio fisico è riuscito a riprendersi dopo una tale battaglia e portarmi fin qui, a pochi metri dalla cima di una delle Seven Summits, in mezzo a uno dei ghiacciai più belli al mondo, davvero voglio autosabotarmi appesantendomi di pensieri totalmente inutili? A ogni pensiero cupo, mi ripropongo sempre e solo questa domanda e – grazie agli incoraggiamenti dei miei compagni e in sottofondo le note di “Bella Ciao” fischiettate dalla nostra guida – la risposta è sempre un chiaro e netto no.

La soddisfazione di arrivare in vetta è immensa, dalla nostra anche un sole strepitoso e una nitidezza sconcertante che permette di allungare lo sguardo a 360 gradi intorno a noi. Più duraturo ancora, però, c’è l’orgoglio di avercela fatta – come fisico e come testa – a due anni esatti dal secondo ciclo di chemioterapia.

Questa montagna ha riparato con corda e nodi lo strappo di fiducia tra me e il mio corpo. Non sono ancora pronta per rimettere le scarpe da corsa, ma chissà… Forse in preparazione della prossima avventura!

Un ringraziamento speciale a:

  • Francesco Merli, direttore di Ematologia presso il Centro Oncologico ed Ematologico di Reggio Emilia
  • Silvia Filiberti, psicologa presso il Centro Oncologico ed Ematologico di Reggio Emilia
  • Tutto lo staff del Centro Oncologico ed Ematologico di Reggio Emilia
  • Pietro Barigazzi, Guida Alpina de La Pietra Guide Alpine
  • Alle, Giusy e Guido, la migliore compagnia
  • Max, il mio primo nella cordata della vita
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