Italiani, smettetela di fare gli snob: il Festival è nel nostro DNA
“Io non guardo Sanremo”, questa la frase più pronunciata in questo periodo in Italia. In realtà siamo tutti figli di Massimo Ranieri, perché il Festival è nel nostro DNA come la pesca col boero e la lettura di Novella 2000 dal dottore. Il commento di Max Deliso
“Io non guardo Sanremo”, ma in realtà siamo tutti figli di Massimo Ranieri
“Io non guardo Sanremo”. Durante il periodo festivaliero è questa la frase più pronunciata nel Bel Paese e nella Terra di Mezzo. Chiunque venga interpellato in merito ai cantanti e agli ospiti della kermesse canora viene guardato con sospetto come se fosse uscito da un turno di pulizia bagni all’Arkham Asylum.
Non si tratta solo di quel tipico e fastidioso snobismo finto intellettuale di sinistra, ma anche del nuovo corso sovranista che seppellisce qualsiasi argomento avvezzo alla cultura, pure quella nazional-popolare, trap, rap e cougar. Poi però guardi gli ascolti e capisci che i conti non tornano, milioni di italiani trascorrono le serate incollati allo schermo, e intuisci che tutti i fighetti che stigmatizzavano il Festival in realtà mentivano.
Tutti. Personalmente ho visto cose in questi giorni che nemmeno Rutger Hauer alle porte di Tannhäuser dopo essere passato dai bastioni di Orione. Vecchi Rocker che imitavano di nascosto Marino Bartoletti mentre danzava tarantolato sulle note di Mamma Maria dei Ricchi e Poveri e si innamoravamo perdutamente di Elettra Lamborghini e del suo twerking mozzafiato, femministe ex comuniste impazzire per la pelvica di nonno Pelù messo meglio di Iggy Pop ma peggio di Ozzy Osbourne dopo il quinto Turbo Hugo, neo-patentanti fan di Eddie Vedder entrare in trance catartico durante l’esibizione aerobica di Rita Pavone negando nottetempo in bar perfino di sapere chi fosse per la vergogna.
E poi c’è Amadeus. Come fai a non dare fiducia a uno che guarda la telecamera con lo stesso sguardo di Totò Schillaci a Italia 90, come fai a non volergli bene dopo che si è portato dietro tutta la famiglia che ride e si commuove in prima fila in mezzo a una comitiva di pensionati della “Quiete” scaricati in Liguria a novembre e dati per scomparsi a Chi l’ha visto, come fai a non buttare un occhio per gustarti le performance del peggiore imitatore di Celentano che la storia ricordi ma pronto a menare i fianchi alla Sandy Marton per strappare una risata a un pubblico spesso appisolato o distratto dal cicaleggio di Alba Parietti e Cristiano Malgioglio, fissi in platea a guisa delle patatine durante l’happy hour.
La verità è che il Festival, questo Festival, umanizza la realtà e la difende, un po’ come faceva Arthur Schopenhauer, che ai giorni nostri sosterrebbe sicuramente che non v’è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi Sanremo, perché siamo tutti figli di Massimo Ranieri, non solo Tiziano Ferro, e per questo dovremmo preoccuparci di quella tinta color vinaccia e mogano che non rende giustizia al suo fascino perenne e immutabile nel tempo mentre canta “Perdere l’amore”.
Quindi smettetela di sparare boiate sui social perculando chi apprezza l’abito di Levante o si immalinconisce per l’esibizione tarda di Zarrillo, piantatela di fare finta di non sapere chi è Diletta Leotta o di dare del travestito a Fiorello quando imita Maria De Filippi, il Festival è nel nostro DNA come la pesca col boero e la lettura di Novella 2000 dal dottore tra uno starnuto trattenuto e un pettegolezzo sterile, fatevene una ragione.
Smettetela di fare gli snob, il Festival è nel nostro DNA