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La vittoria dei leader calmi e la sconfitta del cattivismo

Immagine di copertina
Matteo Salvini, Stefano Bonaccini e Nicola Zingaretti

E così, inaspettatamente, hanno prevalso i leader calmi. Zingaretti e Bonaccini, cui nessuno, alla vigilia, avrebbe concesso un granello di fiducia, sono riusciti in quella che può essere definita, senza remore, un’impresa.

Lasciate perdere la storia, la regione rossa per eccellenza, Berlinguer, le leghe operaie e bracciantili, il socialismo e le passioni rabbiose e vitali dei decenni precedenti; lasciate perdere tutto questo perché stavolta la sinistra è andata davvero vicina alla disfatta.

Un’eventuale sconfitta in Emilia Romagna, infatti, non avrebbe solo posto fine al governo Conte: avrebbe decretato l’uscita dell’Italia dal novero dei paesi europeisti per avvicinarci a quel Gruppo di Visegrád tanto caro a Salvini e alla Meloni.

Non si votava, dunque, sul buon governo di Stefano Bonaccini: si votava sulla collocazione del nostro Paese nel contesto europeo e occidentale, in una sorta di ’48 regionale che soltanto una buona dose di imprudenza piddina aveva derubricato a sfida locale, come se l’impegno ventre a terra del Capitano leghista fosse casuale.

Il PD ha rischiato: molto, tutto. Ha rischiato di rimanere vittima della propria narrazione sbagliata, delle proprie divisioni interne, dell’assurda decisione dei 5 Stelle di correre da soli per consegnarsi a un sicuro massacro, dell’abbattimento dell’ultima roccaforte che, invece, gli è rimasta e di un’ondata sovranista che è ancora ben lungi dall’essere stata ridimensionata.

Eppure, la fortezza, sia pur ammaccata, ha retto e qualche considerazione merita di essere compiuta in proposito. Innanzitutto Conte, un avvocato di cui, fino al giugno del 2018, neanche gli addetti ai lavori si erano mai minimamente occupati.

Era il convitato di pietra di queste elezioni e ce l’ha fatta ancora una volta, a dimostrazione di quanto lo abbiamo sottovalutato e di quanto, al contrario, possieda la stessa virtù di un emiliano illustre come Romano Prodi: la resilienza.

Conte ha retto a tutto: alle bordate di Salvini in estate, al discredito di quanti, durante l’esperienza gialloverde, lo consideravano alla stregua di un maggiordomo, alla crisi di governo più incredibile della storia repubblicana e finanche alle faide intestine della sua nuova maggioranza, con un Movimento 5 Stelle in via di dissoluzione e un Partito Democratico costretto a subire, in settembre, la scissione del demiurgo di questo bizzarro esecutivo in agosto.

Matteo Renzi non c’era, non è entrato in gioco e, forse, per una volta, ha sbagliato a non esserci. Lo abbiamo spesso criticato per il suo eccesso di presenzialismo e personalizzazione della politica ma stavolta la sua assenza si è notata: ha avuto paura di metterci la famosa faccia, probabilmente temendo una nuova Umbria, e gli è andata male perché, anche se ci ha già provato e di sicuro ci proverà anche nei prossimi giorni, questa vittoria proprio non se la può intestare.

Poi il già menzionato Zingaretti, che non sarà Berlinguer, non scalderà i cuori, non appassionerà granché le folle ma le elezioni le vince sempre e il risultato lo porta a casa con una certa dignità.

Ha promesso un rinnovamento radicale del suo partito e ci auguriamo di cuore che dia seguito ai buoni propositi fin qui elencati, non solo coinvolgendo attivamente le Sardine ma anche restituendo un’anima e una missione storica a un soggetto ormai esangue e appartenente a una fase che si è chiusa da anni.

Di Bonaccini abbiamo già detto. Credevamo che sbagliasse nel parlare ostinatamente dei buoni risultati conseguiti alla guida della regione e, invece, i fatti gli hanno dato ragione. Ha tenuto i toni bassi, non si è lasciato coinvolgere nelle polemiche sollevate dagli avversari, per lo più pretestuose, ha unito la sua indole moderata a una sagacia tattica che non credevamo possedesse e, infine, ha prevalso. Chapeau!

Ed eccoci alle Sardine, senza le quali, con ogni probabilità, oggi staremmo qui a raccontare un’altra storia. Non siamo stati dei sostenitori acritici ma un merito glielo abbiamo sempre riconosciuto: hanno portato una ventata di freschezza in un dibattito politico oggettivamente asfittico e sconfortante.

Certo, ora dovranno strutturarsi, darsi una serie di obiettivi concreti e limitare un po’ l’esuberanza televisiva per puntare maggiormente su contenuti e valori tangibili; fatto sta che hanno compreso, prima e meglio di altri, il cambio di fase. Non è poco: nella turbopolitica contemporanea, con i suoi ritmi forsennati e spinti all’estremo, è tutto.

Le Sardine hanno compreso che la stagione ducesca dei leader decisionisti e degli uomini soli al comando, contornati al massimo da uno stuolo di cortigiani, tanto a destra quanto a sinistra, si avvia al termine.

In un mondo multipolare e multietnico, puoi essere nazionalista quanto vuoi ma, prima o poi, devi fare i con la realtà. Gli anni Venti e Trenta del Novecento sono lontani e, nonostante il trumpismo dilagante, si avverte ovunque un bisogno di collegialità che le nuove generazioni sentono ancora più forte, come testimonia anche il bel movimento ambientalista promosso dalla svedese Greta Thunberg.

La missione delle Sardine, in queste elezioni emiliano-romagnole, era quella di favorire la pulizia del linguaggio, di sconfiggere l’odio, la violenza e l’insulto gratuito e sconsiderato ma, più che mai, di far uscire una moltitudine di persone dall’isolamento di uno schermo di computer o di cellulare per prendere nuovamente possesso di luoghi fisici e partecipati.

Forse non esisteranno più le vecchie sezioni sindacali o di partito ma le piazze delle Sardine rispondono alla stessa logica. Salvini non lo ha capito ed è rimasto spiazzato. Ha preferito puntare sul solito copione dell’uno contro tutti, su una candidata che, onestamente e con il massimo rispetto per la persona, altro non era che una sua emanazione e, peggio ancora, su toni, modi e comportamenti sempre più inaccettabili per una terra accogliente e solidale come storicamente è l’Emilia Romagna.

La scena del citofono al Pilastro, giustamente definita da Luca Telese su TPI un punto di non ritorno per la politica italiana e per la stessa leadership leghista, il martellamento su questioni secondarie come Bibbiano, la scelta di portare sul palco persino la madre del povero Tommaso Onofri, il cattivismo esibito in modo rituale, al punto che talvolta dava l’impressione di non crederci neanche lui, e gli avvisi di sfratto a Conte gridati più per vendetta personale che per un’effettiva analisi politica ponderata e razionale hanno indotto molte persone che magari non sarebbero andate a votare ad andarci.

Perché Bonaccini, parliamoci chiaro, di questi tempi era la candidatura meno indicata: troppo grigio, troppo funzionariale, troppo legato al mondo di ieri e alle dinamiche di un partito che ormai, anche se ha vinto, anzi, forse proprio perché ha vinto, non esiste più.

Ha vinto, insomma, nonostante se stesso. Ha vinto perché Salvini ha esagerato, e state pur certi che Berlusconi e la Meloni glielo faranno pesare eccome, specie in vista delle Regionali di primavera.

Sosteneva Lelio Basso, padre costituente: “La cosa più rivoluzionaria che esista, più ancora delle barricate, è questo senso non rinunciabile della propria dignità e della propria responsabilità”.

Basso era ligure di Varazze, ma non credo che esistano parole più appropriate per evidenziare i tratti distintivi dell’Emilia Romagna e dei suoi abitanti.

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