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Vincenzo De Luca, Matteo Salvini e la jettatura

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Vincenzo De Luca, Matteo Salvini e la jettatura

Con chiara allusione a Matteo Salvini, in una delle sue ultime pirotecniche esternazioni Vincenzo De Luca ha detto che c’è un politico del Nord “che porta seccia“, cioè sfiga. Nel vernacolo partenopeo, la seccia è la seppia. Come è noto, quando avverte un pericolo il mollusco spruzza un inchiostro nero per oscurare la vista dell’assalitore. Alla stessa stregua, il menagramo è in grado di rendere buia l’esistenza del suo potenziale nemico con un metaforico lancio del fosco liquido. Non so per quale misteriosa ragione il capo della Lega, secondo il vulcanico governatore della Campania, sarebbe un profeta di sventure. Tuttavia, se è vero che tutti gli italiani condividono un patrimonio comune di superstizioni, da quella sul ferro di cavallo ai fantasmi, ce n’è una esportata inconfondibilmente in tutta la penisola proprio da Napoli. Si tratta, appunto, della jettatura.

Secondo l’eminente antropologo Alfonso M. Di Nola, per jettatura si deve intendere l’influenza nefasta esercitata da uomini – ma anche da oggetti e animali – su altri uomini, intenzionalmente o involontariamente. Il suo discredito è legato a un presunto potere speciale dell’occhio, capace di sprigionare un influsso distruttivo, ossia quel”gettare il male” da cui deriva il termine. In verità, nelle culture popolari domestiche lo jettatore non opera soltanto attraverso lo sguardo, il cosiddetto “occhio secco” dei dialetti meridionali, ma anche attraverso un insieme di segni distintivi che formano un celebre stereotipo: il vestire di nero, come nel lutto, il portare occhiali scuri che nascondono gli occhi, apparire magro e allampanato col volto triste e rassegnato, parlare con voce querula, fare discorsi sulle sventure personali o di persone conosciute. È il personaggio, per capirci, immortalato da uno straordinario Totò nel film “Questa è la vita” (1954).

Assai diffusa nel Medioevo, in epoca borbonica l’angoscia da jettatura diventa una moda dilagante, in cui Benedetto Croce scorgeva un intimo piacere, quasi un gusto perverso, che accomunava nobili e plebei, nel voler trovare argomenti di conversazione poco impegnativi su cui ridere e spettegolare. A sostegno della sua tesi, il filosofo -seguace del “Non ci credo, però…” – menzionava come esempio la celebre “Cicalata” di Nicola Valletta (1787), l’illustre erudito e giureconsulto napoletano che nutriva un timore reverenziale per l’occhio perverso (Quaderni della Critica, 1945). Alberto Consiglio, che nel 1961 ha riedito il testo con una brillante introduzione, ricorda come lo descrive Stendhal dopo una visita nel suo alloggio: “Ho trovato nella camera uno smisurato corno che può avere dieci piedi di altezza. Spunta dal pavimento come un chiodo. Suppongo che sia fatto con tre o quattro corna di bue. È un parafulmine contro la jettatura (la malasorte che un maligno può gettare su di voi con uno sguardo)”.

La figura dello jettatore ispira ben quattro capitoli del “Corricolo” di Alexandre Dumas padre, una raccolta di racconti pubblicata intorno al 1841. Il protagonista, indicato sempre e soltanto come il Principe di ***, era il più famoso menagramo del suo tempo: nacque e la madre perì di parto; provocò la rovina del padre, ambasciatore del Borbone alla corte di Toscana; fece morire di apoplessia un alfiere durante la guerra contro i francesi; agitò la bandiera borbonica al grido di “Viva il Re!” e la guerra fu persa; una sua presenza al San Carlo coincise con l’incendio del teatro. Dumas aveva saccheggiato senza scrupoli le informazioni fornitegli da Pier Angelo Fiorentino, un esule napoletano in Francia. Ma chiera l’innominato (e l’innominabile)? Si deve alle ricerche d’archivio di uno stretto collaboratore di Croce, Fausto Nicolini, il disvelamento del mistero. Il Principe di *** si chiamava Cesare della Valle, duca di Ventignano, colto letterato e gran viveur, nato a Napoli nel 1766 e morto a novantaquattro anni.

Agli albori dell’Ottocento Cesare diventa l’unico erede di un nobile casato e di proprietà del valore di due milioni di ducati: una cifra da far girare la testa ai sudditi di Ferdinando II. Sotto il suo regno (1830-1859), Napoli esibiva una luccicante modernità. Dalla Riviera a Toledo, il gas aveva preso il posto dell’ormai antiquato sistema a olio. Quattrocento lampioni. Il sovrano adorava questi primati, che i “pennaruli” del Borbone sbandieravano come prova tangibile della sua lungimiranza. Il 3 ottobre 1839 un corteo di nastrini svolazzanti, galloni, cappellini e vaporose toilette ordinate per l’occasione a Parigi, aveva scortato il re delle Due Sicilie lungo i sette chilometri e mezzo di strada ferrata che congiungevano la capitale a Portici. Ma fin dall’inizio del nuovo secolo il cuore blasonato della città aveva ripreso a pulsare, nei salotti e nelle serate mondane ravvivate da tornei di danza e puntate ai tavoli di baccarat.

La marchesa Ottavia del Pero ne era un’animatrice infaticabile. La nobildonna amava considerarsi uno spirito volterriano. Disquisiva di Rousseau e Montesquieu, di spirito delle leggi e diritti dell’uomo. Non le dispiacevano i massoni, anche se il re non li sopportava. Non conosceva il duca di Ventignano di persona, ma le dicerie sul suo conto le avevano sempre strappato un sorriso di sufficienza. Si era quindi ripromessa di inserire in una lista di invitati il “fenicottero zoppo”, come veniva soprannominato per la sua andatura goffa. Carattere beffardo, la marchesa aveva accettato una scommessa. Se un qualsiasi incidente avesse turbato la festa, di cui l’ospite fosse stato con ogni evidenza il responsabile, la cancellata della villa sarebbe stata adornata con un corno bronzeo ben visibile anche da lontano. Con una punta di perfidia intellettuale, aveva però preteso in cambio, se tutto fosse filato liscio, che i denigratori del Ventignano leggessero e commentassero con lei il “Dizionario filosofico” di Voltaire.

Nel giorno tanto atteso, un valletto annuncia l’entrata del duca nel salone tra il brusio dei presenti. I ballerini si ritirano di corsa nel giardino. Cesare aveva appena mosso due passi, quando un domestico, che con profondi inchini porgeva sorbetti, coviglie, biancomangiare (un dolce di pasta molle spolverata di cacao), inciampa nel lembo di un tappeto e sparpaglia sul pavimento le meraviglie della pasticceria del regno. La marchesa non si scompone, e con un cenno del capo chiama il duca e gli presenta suo padre. Dopo aver scambiato due parole di circostanza, il vecchio gentiluomo viene assalito da una tosse improvvisa e violenta. Temendo di soffocare, si accascia pesantemente su una poltrona mentre borbottava alla figlia: “Quello lì davvero non mi piace”.

La padrona di casa non si lascia scoraggiare dall’accaduto, che riteneva affatto fortuito. Decide di riagganciare il “fenicottero zoppo”. Lo trova nel parco, alle prese con l’ultimo boccone di biancomangiare. Con voce vellutata gli sussurra: “Non vorrei che vi steste annoiando”. Ventignano replica serafico: “Per nulla, signora marchesa. È una festa magnifica e la notte è incantevole”. Fu un attimo. Dal mare comincia a spirare un vento gelido. Scoppia un tuono terrificante. Tonnellate di pioggia si abbattono sugli ospiti che sostavano tra i boschetti colmi di fontane, pagode, chioschi per i musicanti, statue di satiri, ninfe e pescioni mitologici. I potenziali naufraghi riescono a mettersi in salvo nel salone. La marchesa adesso è sconcertata, ma i “philosophes” l’avevano educata a non curarsi dei pregiudizi del volgo.

Purtroppo per lei, Cesare stava ammirando il monumentale lampadario che rischiarava ogni angolo del salone. Era stato ordinato in Inghilterra, ed era tanto pregiato che perfino il re di Prussia ne aveva commissionato uno gemello. “Oh marchesa – esclama Cesare rivolgendosi alla del Pero, che intanto si era ricomposta in uno splendido abito color verde ramarro- questo lampadario è qualcosa di unico”. Non aveva ancora terminato di pronunciare la frase che si ode un fragore assordante, seguito da grida di panico e da un fuggi fuggi generale. La preziosissima lumiera era piombata a terra in una raffica di cristalli che schizzavano da ogni parte come proiettili, perforando mobili e vestiti. Mentre una schiera di domestici provvedeva a ripulire il salone, svuotandolo delle pregiate macerie, Cesare gironzolava cercando di rendersi utile, anche se non si spiegava il motivo di quel pandemonio. Per lui la festa poteva tranquillamente continuare.

Come un segugio, si mette a caccia  della marchesa per offrirle i suoi servigi. Ma la dama si era eclissata. Il duca abbandona la villa sconsolato, mentre rifletteva sul suo rapporto con il gentil sesso. Era certamente attratto dalle sue forme, secondo i cliché dell’epoca: bocche sensuali, vite sottili, seni ubertosi. Nelle donne, però, percepiva una vitalità ambigua e misteriosa, che si opponeva alla brama predatoria del maschio. Nel frattempo, la marchesa era uscita dalla sua volontaria prigione. Si guardava attorno, con il viso ancora impiastrato di lacrime, cipria, creme. L’indomani in un battibaleno un artigiano forgia un mirabile corno di bronzo, saldato alla cancellata della villa in una cornice di foglie d’alloro dello stesso metallo. Il busto di Voltaire sparisce tra le cianfrusaglie di un rigattiere. Alla prima uscita dopo la sciagurata serata, Ottavia del Pero sfoggiava al collo un vermiglio corno di corallo.

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