La saga dell’orologio di lusso e del candidato griffato (renziano)
Dura lex, sed Roléx. Da una settimana si continua a parlare di un orologio, di un Rolex, che poi non è un Rolex (si tratta di un Audemars Piguet, ma poco cambia) che è stato metaforicamente allacciato al polso della campagna elettorale romana, e che da lì – come se ci fosse entrato per endovena – si è trasfuso nel dibattito politico, diventandone un feticcio. Ieri Carlo Calenda ha chiuso una settimana di passioni e di polemiche con una tirata d’orecchi del candidato con cronografo che è balzato all’onore delle cronache per il suo costoso accessorio: “Ho difeso Roman a spada tratta, però anche basta co’ sto orrendo pataccone sempre in primo piano!”. Una scomunica. Ma a ben vedere anche il prodotto di una piccola – e interessante – battaglia di egemonia culturale che si è combattuta a colpi di selfie e di dibattito sui social. Tant’è vero che il candidato Sindaco di Azione ha parlato così, proprio dopo la segnalazione di un follower che gli mostrava una foto del ragazzo di Italia Viva (candidato nella lista Calenda in virtù di una alleanza) con l’orologio in bella mostra al polso. Calenda, che pure all’inizio della vicenda aveva difeso il ragazzo a questo punto ha sbottato: “Sei candidato al Municipio – ha scritto – Adesso gambe in spalla e vai a prendere i voti. Evita di far parlare solo di questo. E che palle!! Pedalare”.
Non è dunque un caso, e non poteva esserlo, che il dibattito diventasse così pervasivo, dal momento che il costoso accessorio appartiene al rappresentante di un partito che nelle stesse ore chiede di abolire il reddito di cittadinanza. Ed ecco il nostro personaggio. Ad indossare l’orologio che calamita l’attenzione dei social è un ragazzo di 21 anni, che fra l’altro corre come candidato minore per un municipio romano, il terzo. Si chiama Roman Pastore. Di lui – in breve – abbiamo appreso che è un social media manager, che è un fan renziano, e che così è stato convolto nella comune battaglia che accomuna l’ex premier e l’ex ministro per il Campidoglio. A denunciare il look di Pastore era stata una influencer abituata a sostenute posizioni molto “radical” nella polemica pubblica: si chiama Barbara Collevecchio. Non ho particolari motivi di simpatia per lei (in passato ha polemizzato anche contro me, accusandomi di qualche nefandezza che non ricordo. Ci sta), ma il punto è un altro. Presi nel gorgo della polemica entrambi i suoi due protagonisti sono diventati, in un attimo, bersagli e sono stati sommersi dalle ingiurie. Qualcuno si è spinto fino a chiedere la cancellazione e la radiazione della Collevecchio dal suo ordine professionale, il candidato Renzo-calendiano ha dovuto rispondere ad ogni tipo di insulto. Chi ha preso le difese del ragazzo ha spiegato indignato che l’orologio era un “regalo del padre”, per di più “recentemente scomparso”. Tuttavia la Collevecchio ha colto un punto innegabile: se sei in campagna elettorale il modo in cui ti presenti e quello che scegli di mostrare di te sono parte del tuo messaggio. Quindi, regalo o non regalo, padre o non padre, Roman sceglie di mostrare l’orologio di lusso che potrebbe tranquillamente custodire a casa, come un corredo della sua immagine pubblica.
La polemica sale di livello, perché come abbiamo visto il partito di Matteo Renzi e il suo leader, proprio in questa settimana, hanno formalmente avviato la campagna contro il reddito di cittadinanza. E questo ha reso ancora più forte il messaggio di sottotesto di quell’orologio. Che non è più un fatto personale, ma un fatto politico. Tant’è vero che il cervello economico del partitino di Renzi, Luigi Marattin, si è tuffato a pesce nella polemica e ha scritto: “Parte dei nostri problemi sono iniziati quando, vedendo un bell’orologio al polso di qualcuno, invece di dire ‘mi impegno per potermelo permettere anch’io’ – spiegava il deputato – abbiamo cominciato a odiare colui che lo indossa”. Geniale: si è passato dall’austero “Ora et labora” al marattiniano “Rolex et labora”. Dove i poveri, hanno questa grande opportunità: “impegnarsi” per accedere al lusso (quando magari non hanno di che sfamarsi). Ecco dunque che il regalo di papà, un papà che non c’è più, di nuovo smette di essere un oggetto, e ridiventa un simbolo. Attaccato da più parti, anche il giovane Roman torna in campo. In rete, come abbiamo visto, ancora oggi rimbalzano e si moltiplicano le tante foto in cui esibisce – a braccio piegato, talvolta fino al rischio paresi – il suo Audemars, e persino alcuni scatti in cui scende da una macchina lusso. Selvaggia Lucarelli ha inventariato ben 49 diversi immagini di cronografi esibiti.
In un’altro ritratto – addirittura – Roman si toccava la guancia sinistra con la mano destra, in una posizione innaturale che aveva in solo scopo: mettere in mostra il polso e il suo sontuoso corredo. Anche lui ha scritto, sarcastico e spavaldo, affidando a Twitter il suo messaggio: “Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno “sgamato” l’Audemars Piguet che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica – aggiunge Roman Pastore – riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali? Forse è chieder troppo…”.
Mi spiacerebbe poter ricordare al giovane candidato una bella frase di Albert Camus: “Dopo i diciotto anni ogni uomo è responsabile della faccia che si ritrova”. Quando sei candidato, e sostieni delle posizioni politiche è inevitabile che qualcuno ti chieda conto di quello che fai. E persino di quello che sei. Dunque la battaglia culturale delle elites benestanti di cui Roman fa legittimamente parte per togliere ai più poveri un sussidio vitale, non è un dettaglio. Nella splendida palestra del Partito Comunista italiano, se qualcuno avesse voluto ostentante simboli di ricchezza, e fare politica a sinistra, sarebbe stato (giustamente) cacciato e preso a pernacchie. E qui il punto non è il moralismo presunto, ma proprio il messaggio di fondo: Roman sembra uno di quei rampolli di Riccanza, il reality sui figli di papà che davano da mangiare il filetto argentino al cane. E grazie al marketing e all’ideologia apparentemente leggera dei social, il lusso – da nicchia e orpello tribale delle elites – è diventato una ideologia pret a porter. Una sorta di certificato di potabilità sociale, un presunto prolungamento dell’ideologia del merito: se ti puoi permettere il lusso, significa che vali. Nella prima repubblica i grandi partiti popolari – non solo il PCI, ma anche la Dc, e persino il MSI – il avevano imposto una morale esattamente rovesciata.
Ecco perché oggi il compito dei poveri, secondo l’acuto Marattin, sarebbe “meritarsi” anche loro il certificato di portabilità sociale, come certi rapper che si fanno impiantare denti di oro bianco sulle arcate per far capire che adesso sono diventati uomini di successo.
Mi sono interrogato, sugli effetti di questa campagna profonda delle elites più regressive, che dismettono la loro mascheratura “Nazionalpopolare” per scegliere un volto più affilato, glamour, e allo stesso tempo feroce. C’è da rimpiangere il berlusconismo che usava il lusso come corredo dell’Unto del signore, come stigma, ma poi prometteva “più pensioni per tutti”. Ci sono da rimpiangere quei cultori del ritiro di Arcore che dicevano del suo leader: “È già ricco, dunque non ha bisogno di rubare!”.
Siamo passati infatti – in meno di dieci anni – dal mito del miliardario democratico, che può fare bene i tuoi interessi proprio perché è ricco, (quindi teoricamente sottratto alla tentazione materiale del peccato) a quello del miliardario che difende i suoi interessi (e che usa la politica per legittimante questa battaglia sul piano dei simboli e dei valori). Adesso: il povero Roman, con le sue macchinine e i suoi orologetti forse non ne è nemmeno consapevole. Ma è evidente che il renzismo crepuscolare, e suoi fiancheggiatori, si sono inventati l’ultima meravigliosa acrobazia politica, l’ultima guerra santa: quella in cui i poveri, in quanto poveri, devono votare i ricchi, e i miracolati delle élites, per difendere i privilegi dei ricchi e dei miracolati delle elites. Ecco perché una campagna contro il reddito di cittadinanza, non è un impegno per correggere i difetti della legge (piena di limiti, e migliorabile, come tutte le leggi), ma una leva per spostare i rapporti di forza sociali che quella legge rappresentava. A Renzi, e ai suoi rich kids da consiglio di quartiere non interessa correggere, interessa cancellare. Chi combatte il reddito non vuole affatto perseguire i truffatori, perché l’obiettivo reale è l’idea più indigeribile – per loro – del reddito: ovvero quella che nove miliardi di euro vengono stanziati direttamente ai poveri e per i poveri. Senza mediazioni. Senza elemosine. Ho conosciuto, solo pochi giorni fa con un ex pescatore di 55 anni che prende il reddito di cittadinanza. Non ha pensione, non ha risorse economiche, non ha parenti, non può più imbarcarsi perché ha una invalidità alla schiena che gli impedisce di lavorare. È uno quelli che i leopoldini oggi definiscono “divanisti”. Ma in realtà non può sdraiarsi, perché non ha un divano e vive in una roulottes, grazie al sussidio. È un invisibile, uno dei tanti che non ha voce. Uno dei bersagli di questa campagna delle elites contro i “mantenuti” del reddito.
Fateci caso: nessuno sosterrebbe di togliere la pensione di invalidità ai ciechi perché ci sono dei finti ciechi. Nessuno sosterrebbe di abolire il sussidio di invalidità per i paraplegici perché esistono i finti paraplegici in sedia a rotelle.
I nemici del reddito, invece, fanno esattamente il contrario: vanno a caccia dei truffatori, proprio perché vogliono cancellare il reddito. Questi referendari delle elites i rappresentanti inconsapevoli di un tempo in cui i partiti non esistono più come costruttori di idee e mediatori di conflitti, come propositori di modelli sociali. Sono piuttosto predatori che vanno a caccia di prede nel nuovo tempo in cui darwinianamente il povero dovrebbe essere precettato nella nuova ideologia: andare a caccia del Rolex per farsi perdonare di essere povero. Oppure, più razionalmente, soccombere. Ma senza disturbare troppo il generone ingioiellato, la nuova classe dirigente supercafona, e la sua battaglia di egemonia combattuta a colpi di selfie.